Comunità di Connessioni ci porta nel dramma del Medio oriente, dove la sfida è sopravvivere e ricostruire l'umanità dalle macerie
Siamo sommersi da articoli sulle atrocità della guerra in Terra Santa, da storie che mescolano la tragedia di un popolo con la fine dell’umanità, da immagini che ci tolgono il respiro. Ma esiste un’altra faccia della guerra, che non mostra la brutalità, ma la perseveranza, che non distrugge, ma ricostruisce, che non esalta il male, ma risalta il bene?
Sono volontario nelle missioni dei fratelli delle scuole cristiane e ho intervistato tre fratelli lasalliani che lavorano in progetti socio-educativi in Medio Oriente: Peter Iorlano e Alejandro González, professori all’Università di Betlemme, e Guillermo Moreno, direttore di Fratelli, un centro per bambini rifugiati a Beirut. Ecco le risposte di tre persone che ogni giorno scommettono sulla vita e su un mondo più buono.
In mezzo a tanta distruzione, avete assistito a cambiamenti positivi nati in risposta a questa situazione?
Peter: Il più grande atto di resilienza è che nessuno ha smesso di lottare. Nonostante i rischi, la gente continua a lavorare e gli studenti non interrompono gli studi. Alcuni, per percorrere pochi chilometri, impiegano ore, sfidando pericoli quotidiani. Il nostro obiettivo è offrire lezioni in presenza e garantire uno spazio sicuro. Staff, professori e studenti si sono uniti nella convinzione che bisogna andare avanti.
Alejandro: Dopo il 7 Ottobre, i nostri studenti hanno sviluppato un profondo senso di apprezzamento per i loro studi, che va oltre la preparazione professionale. Sebbene le opportunità di lavoro siano limitate e siano consapevoli che finiranno a lavorare in un altro settore, i ragazzi continuano a venire ogni giorno in ateneo. Vedono il campus non solo come luogo di apprendimento, ma come uno spazio sicuro in cui il contatto sociale e lo studio diventano un atto di cura di sé e un percorso di automiglioramento, a prescindere dal lavoro futuro.
Guillermo: Quando è scoppiata la guerra, mentre già cadevano le bombe, ho affrontato la decisione più difficile: fuggire con lo staff o restare mettendo tutti a rischio, ma tenendo accesa quell’unica luce di speranza. Siamo rimasti e abbiamo trasformato la nostra scuola in un centro di emergenza che ha soccorso oltre 10mila persone. I nostri collaboratori, di diverse confessioni, sfidavano deliberatamente la sorte ogni giorno per tenere aperte le attività per i bambini, passati da 60 a 200 al giorno. In poco tempo siamo diventati l’unico punto di rifugio della zona e un’oasi di pace per i bambini.

Com’è cambiata la vita quotidiana degli studenti dall’inizio della guerra?
P.: La violenza contro i palestinesi (attacchi fisici, detenzione senza accusa e demolizioni di case) e l’aumento della disoccupazione hanno spinto molti studenti a emigrare. Inoltre, il governo israeliano ha approvato una legge che non riconosce i titoli di studio in ambito educativo rilasciati dalle università palestinesi, causando un calo significativo delle iscrizioni.
A.: I nostri studenti di Hebron, per un tragitto di un’ora, ne impiegano fino a quattro. Un ragazzo è rimasto scioccato dall’umiliazione dei checkpoint che i palestinesi devono attraversare quando gli autobus di linea vengono fermati dall’esercito. Un gruppo di studentesse musulmane si è rifiutato di togliersi l’hijab a un checkpoint, venendo trattenuto per ore. Questi aneddoti mostrano la loro quotidianità.
G.: Era il 23 settembre e iniziavamo l’anno. Diamo sempre un cartellino colorato da mettere al collo con il nome dei bambini. A metà mattinata arrivò l’avviso dell’imminente bombardamento. La scuola chiuse. Il 13 dicembre riaprì. Una mamma e una bambina di quattro anni ritornarono. La bambina aveva ancora il suo cartellino; la madre mi raccontò che non l’aveva mai rimosso, neanche di notte, perché ogni giorno sperava di tornare a scuola.
La scuola può servire come un modello di uguaglianza, opponendosi alla guerra unendo culture e religioni?
A.: Credo fermamente che attraverso l’istruzione potremmo costruire una società migliore, dove tutti si sentano al sicuro e liberi di essere sé stessi. Ma per questo è necessaria la giustizia: uguaglianza di diritti, sicurezza per tutti e un processo di riconciliazione di cui l’istruzione è un pilastro fondamentale.
G.: Sì, sono totalmente d’accordo. Questo è il nostro obiettivo a Fratelli. Qui convivono otto confessioni religiose e dieci nazionalità in armonia, uniti da valori comuni. Molti dei bambini arrivano da contesti radicalizzati, con idee aggressive. Tuttavia, dopo aver trascorso anni con noi, diventando amici di chi è diverso, si verifica in loro un vero e proprio cortocircuito perché le loro idee e le loro esperienze entrano in contraddizione. Per fortuna, l’esperienza pesa più delle idee e finiscono per modificare i pregiudizi che avevano.
La domanda finale rimane a noi, che la guerra la vediamo solo su uno smartphone: di fronte a eventi così tragici, la scuola, intesa come istituzione globale, deve rivedere il suo ruolo?
A.: Ci sono elementi che ostacolano lo sviluppo dell’educazione: burocrati che conoscono poco il settore, una cultura che apprezza la memorizzazione, nepotismo nelle assunzioni e un’eccessiva attenzione ai voti e ai titoli. Si trascurano invece la formazione al pensiero critico, lo sviluppo umano e la gestione emotiva. Abbiamo bisogno di un’istruzione che non solo prepari per il lavoro, ma che aiuti ogni giorno a trovare significato, pace e gioia.
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