Ishida Syou in "La soluzione è sempre un gatto" propone una insolita terapia per l'ansia. La vera questione è il rapporto con chi cura
Sembra un libro per gli amanti di gatti, ma è un libro sull’uomo e sulla medicina. Immergiamoci in La soluzione è sempre un gatto di Ishida Syou (Rizzoli, 2025), sequel di quello analogo pubblicato l’anno precedente, entrambi bestseller internazionali e seguitissimi dal pubblico. Ed entriamo nel mondo surreale di un improbabile e magica clinica per persone con problemi di carattere o di solitudine o di ansia, in cui a tutti uno strano medico con una altrettanto strana infermiera prescrive, come fosse una medicina… un gatto. E glielo forniscono sull’istante; il “malato” lo deve portare a casa, assieme alle istruzioni su come “usarlo”, una specie di “bugiardino” su come “assumere la terapia a base di compagnia di gatto”.
Calma: fin qui siamo sul piano di superficie; storie su quanto bellini siano i gatti e sulla pet-therapy (peraltro utile) è pieno il mondo.
Poi però…
Poi però si può provare a scendere insieme sotto le righe e chiedersi: ma è tutto qui? Davvero è solo un trattato per amanti dei mici? Scava-scava, trovi che qui c’è di più di un micio che fa compagnia: c’è un prescrittore e una ricetta. Che cosa ci dice questo, che è una grande metafora sulla vita? Che il gatto è quasi inutile se non viene prescritto; solo il rapporto col “prescrittore” salva, cambia, cura. Anzi, ancora di più: il gatto e il prescrittore non esisterebbero se non fossero desiderati e cercati. Infatti la clinica appare solo a chi la cerca e quando la cerca; poi scompare per tutti gli altri che non la mendicano.
Ecco allora la metafora della buona medicina, in tre passi sotto le spoglie metaforiche e icastiche di una clinica di gatti. Il primo passo è che la cura deve essere voluta, il paziente deve voler guarire. Infatti, nessuno trova la porta di questa metafisica clinica se non chi la va a cercare; per tutti gli altri resta il nulla. Secondo passo: il “gatto” deve essere prescritto, cioè deve entrare dentro un rapporto curativo col prescrittore: un gatto di passaggio per quanto carino, non cura nessuno. Terzo, nel rapporto di cura, il prescrittore dà qualcosa di sé, non resta inerte; e questo lo vedremo.

Non ho molta speranza che oggidì qualcuno conosca Dino Buzzati, le sue novelle, i suoi romanzi. Una novella delle sue si sente riecheggiare nelle pagine del libro di Syou. È Il cane che ha visto Dio (in Sessanta Racconti, 1958). In un eremo isolato dalla civiltà un santo eremita trascorreva le giornate tra digiuni e visioni di Dio. Era accompagnato da un cane che periodicamente andava in paese e tornava dall’eremita con del pane donato dai paesani. L’eremita muore e anche il cane scompare. La vita nel villaggio torna peccaminosa e angosciata. Ma un giorno il cane si fa rivedere e i paesani, vedendolo come un mandato dal vecchio eremita, ormai morto, tornano a ridargli il pane e a tornare a vivere in pace.
In entrambe le storie il miracolo lo fa l’animale, ma è perché è “prescritto” da un altro.
Paradosso per la cultura degli ultimi secoli: il curante non è un corollario della cura (cioè un optional). Anzi, potremmo dire che è la cura ad essere un corollario (cioè un attributo) del curante. Cura e curante sono entrambi indispensabili.
Invece il medico sembra vieppiù facoltativo; diventa “prestatore d’opera” interscambiabile e rimpiazzabile; talvolta negli ospedali e USL, cogliendo la parte meno buona dell’essere aziende, il malato diventa cliente, e un cliente da trattare con algoritmi o protocolli. E così l’estraniazione e la diffidenza verso la sanità crescono, come spiegava Ivan Illich in Nemesi Medica o – in termini più ampi – Herbert Marcuse nel suo L’uomo a una dimensione in cui parlava con timore del mondo attuale, dove la realtà è ridotta a solo quello che può essere misurato.
Ma in fondo, non è così in ogni campo e mestiere? Non stiamo pagando l’aver superato un livello-soglia di abbandono alla tecnologia e soprattutto di sfiducia nelle persone?
Tuttavia, ci sono ancora dei nuclei di resistenza, dove qualcuno devoto alla scienza e obbediente alla propria coscienza fa quel “miglio in più” che non è richiesto dal mansionario o dal ruolo o dall’azienda, ma è ben chiaro che è richiesto dal paziente e dall’animo stesso del medico. E ne conosciamo e conserviamo i nomi con orgoglio.
Ciliegina finale: nel libro c’è un piano ancora più profondo, che non stupisce conoscendo la venerazione che ha la letteratura nipponica per la figura dei gatti. È il piano spirituale. Non voglio spoilerare il finale, ma getto un’esca per la lettura, che sintetizzo in questa frase: il “prescrittore” nel prescrivere prescrive qualcosa di sé; anzi – senza punte di orgoglio – prescrive sé, o perlomeno parte di sé. La capirà chi legge il libro.
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