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Home » Economia e Finanza » Economia Internazionale » Fed & Dollaro » SPY FINANZA/ I nuovi segnali di pericolo che arrivano da Fed e Argentina

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SPY FINANZA/ I nuovi segnali di pericolo che arrivano da Fed e Argentina

Mauro Bottarelli
Pubblicato 23 Settembre 2025
Ansa

Ansa

Nel disinteresse generale la scorsa settimana sono accadute cose interessanti, sia negli Stati Uniti che in Argentina

Attenzione a quanto accaduto nel disinteresse generale venerdì scorso. Primo, l’influente membro della Fed, James B. Bullard, ha aperto chiaramente a un’ipotesi di 75 punti base di taglio da qui a fine anno. Apparentemente, nulla di che. Ma la storia recente ci insegna come quando qualcosa viene lanciato sul tavolo, spesso e volentieri non è per mero pourparler. Bensì per vedere l’effetto che fa.


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Stress test. Prospettare un taglio in più – o, forse, un accorpamento della nuova sforbiciata che si sostanzi in un jumbo-cut da 50 punti base più un altro da 25 entro il 31 dicembre – a nemmeno una settimana dalla conferenza stampa di Jerome Powell e, soprattutto, dalla conferma di un solo taglio per il 2026, tradisce tensione.


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Ed eccoci al secondo avvenimento chiave. Con mossa senza alcun precedente, il già giubilato Bureau of Labor Statistics statunitense ha annullato la pubblicazione di un dato chiave relativo alle prospettive inflazionistiche statunitensi. Atteso inizialmente per il 16 settembre, il Consumer Expenditure Survey è stato di fatto cancellato dal calendario delle letture macro. Senza motivazione e senza una nuova data.

Perché conta? Basta leggere la definizione che lo stesso BLS ne offre: The only federal household survey providing comprehensive data on Americans’ spending patterns, incomes and demographics across all categories. It’s essential for economists and policymakers to understand shifts in consumer behavior. Un dato chiave. Perché annullarlo? Torna in mente la definizione che Jerome Powell ha dato del taglio compiuto e di quelli che verranno: Risk management cut. Nulla di strutturale. Solo un aggiustamento in corsa. La data-dependency (inflazione in testa) resta quindi la stella polare, almeno fino a maggio, quando si terrà il cambio della guardia alla guida della Banca centrale Usa?


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Tutt’intorno, la variabile assoluta. Con un aumento overnight da 150 miliardi fra il 16 e il 17 settembre, quota 850 miliardi per il refill del Tga – il conto corrente federale con cui il Governo Usa paga le sue spese ordinarie – è stato raggiunto con ampio anticipo sulla scadenza prefissata di fine settembre. Contemporaneamente, l’asta di venerdì scorso ha visto il reverse Repo della Fed di New York toccare un minimo storico: solo 14 controparti partecipanti. E 13 miliardi e spicci di allotment. Praticamente, il flip flop che ha garantito liquidità con la sua logica di vasi comunicanti sta per chiudersi. Il cosiddetto cash on the sidelines sta per esaurirsi.

Quando il reverse Repo arriverà a zero, le banche dovranno prendere in prestito denaro dalla facility Repo, visto che sull’open market sarà finita la festa del deposito risk free e del collaterale che balla la samba. Il problema? Il Repo, ovvero la facility che fornisce liquidità e non la parcheggia come il reverse Repo, ha un cap a 500 miliardi. La correzione obbligata per purgare un po’ gli eccessi gonfia-indici che fanno capo al comparto AI arriverà, quindi, quando qualcosa obbligherà la Fed a far raddoppiare quel cap? O, magari, a sospenderlo del tutto? A tempo assolutamente determinato, ovvio.

La facility Repo nata dalla crisi di liquidità del settembre 2019 doveva chiudersi entro un mesetto e con una sola asta a settimana. Si chiuse ad aprile 2020, quando ci pensò il Covid a garantire liquidità a fiumi e tassi a zero. E con un’asta soltanto. Ma al giorno. Ogni giorno. Il giovedì, due. Adesso, davvero, ogni giorno è buono per il pullback che garantisca l’emergenza. Ma solo il sottoscritto pare avere memoria di quanto accaduto. Eppure non parliamo di ere geologiche fa.

Sapete ad esempio di quale altro déjà vu non vi stanno parlando? Se volete scoprirlo, occhi puntati sul peso argentino. Guarda caso, nuovamente al centro di una tempesta. Stando a calcoli riportati dal Financial Times e non smentiti da Buenos Aires, le autorità ha speso qualcosa come 53 milioni di dollari mercoledì scorso, 379 giovedì e un ammontare compreso tra i 650 e i 700 milioni nella giornata di venerdì per sostenere la valuta. Insomma, un miliardo in tre giorni di dollari venduti sul mercato.

Il problema? Lo mostra questo grafico: l’Argentina non ha questa cifra. Quindi non può permettersi operazioni brucia-riserve che vadano oltre l’intervento spot. E almeno dal mattino, il buongiorno di un’una tantum risolutrice appare improbabile. Per il semplice fatto che l’Argentina non ha riserve valutarie che non siano frutto di prestiti. Tra Cina, Fmi e banche domestiche, Buenos Aires ha debiti per circa 90 miliardi di dollari, di fatto limitando a circa 30 miliardi l’arsenale valutario a disposizione. Uno dei quali è già stato bruciato. E sono due i dati che devono fare riflettere.

Primo, evitare l’errore di contabilizzare il tutto in base a un calcolo meramente matematico. Volendo standardizzare l’accaduto e prezzando la necessità difensiva a un miliardo di dollari venduti sul mercato ogni tre giorni, di fronte alla Banca centrale argentina non ci sono 90 giorni di cuscinetto prima del potenziale default. Se dovesse partire la classica spirale speculativa auto-alimentante, entro una settimana a moltiplicarsi sarebbe solo l’ammontare giornaliero di riserve da bruciare. E come per gli squali, il mercato sentirebbe l’odore del sangue. Alzando il tiro e rendendo impossibile una resistenza che vada oltre il mese di settembre.

Secondo, come mostra questo secondo grafico, una situazione come quella appena descritta ha conseguenze immediate e dirette per i detentori di bond argentini, storicamente e proverbialmente l’archetipo della vittima di haircut e write-off. Quasi per antonomasia. E 43,3 centesimi sul dollaro per il bond 2030 già rappresenta un valore di negoziazione da fire sale. Da svendita.

Questione di giorni, prima dell’ovvia capitolazione. A quel punto, il genio Javier Milei cosa farà? Riporrà la motosega, prima che la usino gli argentini per finalità differenti da una spending review indiscriminata e totalmente propagandistica? E magari arriverà al paradosso di bussare giocoforza alla porta di Pechino, di fatto gettando in discarica mesi e mesi di retorica da Chicago Boys fuori tempo massimo?

Attenti. Sembra che tutto vada bene. Ma è tutto in ebollizione.

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Tags: InflazioneEconomia USA

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