Un mosaico di storie di uomini e donne di oggi, raccolte attorno al filo conduttore del valore della fatica. "Alzarsi all'alba" di Mario Calabresi
Torniamo ancora su Alzarsi all’alba, il libro di Mario Calabresi uscito da poco per Mondadori e già segnalato su queste pagine. È un mosaico di storie di uomini e donne d’oggi, raccolte attorno al filo conduttore della necessità, del valore, in ultimo della bellezza della fatica nella vita. Un tema importante, in una società dominata dalla comodità, dall’approssimazione e dal disimpegno.
Sono tutte storie molto belle, luminose, rese vive dalla penna abile di un cronista di lungo corso. Un esempio è la vicenda di Pinin Brambilla Barcilon, che per ventidue anni ha lavorato con una pazienza infinita al restauro dell’Ultima Cena di Leonardo da Vinci, chiusa dentro Santa Maria delle Grazie a Milano.
La signora Pinin ha raccontato la sua ventennale impresa in libri e articoli. In una delle sue ultime interviste, inserita in un programma televisivo curato da chi scrive, spiegò cosa volesse dire lavorare sul dipinto ogni giorno, centimetro per centimetro, cercando – diceva – di dialogare con l’artista, cioè di capire cosa davvero Leonardo avesse voluto dire.
Quello dell’Ultima Cena è stato un restauro epocale. Pinin Brambilla Barcilon aveva addosso gli occhi di tutta la comunità dei restauratori e più in generale di molta parte del mondo della cultura. Dal seicento in poi sull’opera di Leonardo erano stati compiuti moltissimi interventi, che ne avevano alterato l’aspetto. Strati di colore erano stati sovrapposti a quello originale. Molte figure, su tutte quella di San Matteo, risultavano innaturalmente modificate. Si trattava quindi di fare scelte importanti.

Fin dall’inizio erano grandi anche le difficoltà pratiche, perché non era stato possibile chiudere la sala del Cenacolo Vinciano al pubblico e dunque sovente Pinin lavorava sui ponteggi in presenza dei visitatori, che in qualche caso, addirittura, la rimproveravano di impedire loro la visione dell’opera di Leonardo.
Nonostante ciò aveva compiuto con letizia la fatica della sua opera, con risultati straordinari. E in quella intervista lei, novantenne, testimoniò con la forza di una ventenne tutta la sua dedizione non solo al lavoro, ma al lavoro fatto bene.
La storia di Pinin offre dunque una chiave di lettura dell’intero libro: il valore della fatica, ma più a fondo la fatica di fare bene, l’attenzione al particolare, la cura. Si sente qui l’eco della grande letteratura: L’argent di Péguy (la gamba di una sedia doveva essere ben fatta…), La chiave a stella di Primo Levi. O, in modo diverso, Le Solitarie e Fatalità di Ada Negri.
Non è compito del giornalista aggiungere la morale alle storie che racconta e dunque chi la volesse cercare tra le molte che Calabresi raccoglie non la troverà, né nelle righe né tra di esse. Ma è compito del lettore rifletterci e dunque porsi la domanda: perché? Per cosa vale la pena la fatica, la dedizione, addirittura il dono di sé per un compito? Non è detto che ci sia sempre una risposta. Per chi crede, la ragione è chiara. Ma evidentemente, come testimonia la positività delle storie di questo libro, corrisponde a qualcosa che sta nel cuore dell’uomo.
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