Giorgia Meloni è riuscita ad assicurare il ritorno in patria di donne italiane non certo della sua parte politica
Annalisa (Corrado, eurodeputata Pd) e Benedetta (Scuderi, europarlamentare verde nelle liste Avs) si vanno ad aggiungere a Ilaria (Salis, eurodeputata Avs, a Strasburgo nel gruppo The Left) e a Cecilia (Sala, giornalista del Foglio e di Chora Media).
Nell’arco di un anno e mezzo Giorgia Meloni (prima donna presidente del Consiglio dell’Italia repubblicana) è intervenuta direttamente per tirar fuori da arresti e imprigionamenti tutte le sopraddette: tutte infilatesi di propria iniziativa in situazioni difficili, fuori Italia. Chi a fare (violento) antagonismo di piazza in Ungheria, chi a fare (pericoloso) giornalismo investigativo in Iran, Corrado e Scuderi a far politica (italiana) sulla Flotilla pro-Hamas nel Mediterraneo. Tutte diversamente distanti della premier, anzi: tre di esse irriducibili avversarie politiche.
Per proteggere i quattro parlamentari italiani fino alle acque territoriali israeliane, il Governo (che ha mostrato di essere anche il loro) ha mobilitato la marina militare. E dopo che loro hanno ignorato anche un ultimo appello del presidente della Repubblica, è stata la mano di Palazzo Chigi e della Farnesina a tutelare la loro sicurezza e a ottenere la loro rapida rimessa in libertà, garantendo loro il diritto sostanziale di uscire e rientrare in Italia sancito dall’articolo 16 della Costituzione.
È stato però decisivo il credito – istituzionale, politico, personale – che la premier ha potuto e voluto spendere a loro favore. Il credito meritato presso il Governo israeliano volando a Gerusalemme per portare solidarietà pochi giorni dopo il 7 ottobre 2023. E per riportare a casa le quattro, la presidente del Consiglio non si è curata delle violente manifestazioni di piazza contro di lei e contro Israele, proprio all’esito del caso Flotilla.
Non era andata diversamente per Salis, scarcerata da Viktor Orbán, per essere subito eletta all’Europarlamento in opposizione estrema sia al premier ungherese che a quella italiana. E lo stesso è accaduto, all’inizio dell’anno, per Sala, che nessuno avrebbe scommesso che sarebbe stata esfiltrata in pochi giorni dalla terribile prigione iraniana di Evin.

È avvenuto ancora grazie alla diplomazia personale della Meloni con Elon Musk, nel mezzo fra le presidenze Usa di Joe Biden e Donald Trump. Sia piaciuto o no (e a molti non è affatto piaciuto: alcuni avrebbero forse preferito che Sala fosse rimasta ostaggio degli Ayatollah per poterla agitare per mesi sui media italiani, contro una premier donna e madre che non si fosse preoccupata di una giovane giornalista).
Nessuna ha ringraziato davvero Meloni, benché nessuna abbia rifiutato il suo aiuto (peraltro invocato apertamente da altri, con toni spesso pretestuosi). Ma neppure Giuliana Sgrena ha mai veramente ringraziato Silvio Berlusconi di averla strappata ai tagliagole dell’Isis cui si era quasi intenzionalmente consegnata a Baghdad nel 2005. E la sua liberazione, purtroppo, costò la vita al colonnello Nicola Calipari. Ma per la giornalista del Manifesto e per molti come lei – “resistenti” ora come allora – la democrazia sta da una parte sola e nell’altra metà del Paese (o del mondo) c’è sempre e solo fascismo da odiare e combattere.
Nel frattempo l’europarlamentare francese Emma Fourreau (La France Insoumise/The Left) imbarcata sulla Flotilla e arrestata in Israele, è tuttora detenuta nel carcere di Ketziot, storico lager dell’esercito israeliano nel deserto del Negev. Fourreau si trova imprigionata assieme ai palestinesi – alcuni dei quali condannati per terrorismo – per la cui causa è già stata arrestata ed espulsa da Israele in una precedente missione della Flotilla.
L’eurodeputata ha annunciato l’inizio di uno sciopero della fame e non risulta che né lei, né LFI abbiano chiesto aiuto al presidente francese Emmanuel Macron. Il responsabile costituzionale della politica estera transalpina è peraltro da mesi il capofila globale dei critici del premier israeliano Bibi Netanyahu. A Parigi, intanto, il Governo non esiste (da più di un anno). Il ministro degli Esteri Jean-Noel Barrot è dimissionario e non appartiene al “campo macroniano”, ma a MoDem, il partito del premier uscente François Bayrou, che ha provocato la crisi.
Il nuovo capo della diplomazia francese dovrebbe essere nominato nelle prossime ore dal premier (macroniano) designato Sebastien Lecornu: ma non è certo che quest’ultimo ottenga domani la fiducia dall’Assemblea nazionale, né quale sarà la nuova maggioranza. Di essa sicuramente non farà parte LFI, che sta chiedendo da mesi le dimissioni di Macron benché condivida l’appoggio totale dell’Eliseo alla causa palestinese.
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