Economia UE a +1,4%, ma la Spagna fa +2,9% grazie a formazione e costi bassi dell’energia. Unico neo: le differenze amministrative fra comunità autonome
In un’Europa che chiude il 2025 con prospettive di crescita modeste — come riportato dalle principali agenzie, l’ultimo aggiornamento della Commissione indica un PIL medio dell’Eurozona attorno all’1,4% — la Spagna continua a stupire. Con un +2,9%, quasi il triplo dell’Italia e oltre il doppio della Germania, Madrid si conferma l’economia più dinamica tra i grandi Stati membri. Un risultato che sembra contraddire il dibattito odierno su stagnazione, bassa produttività e rallentamento globale. “Dieci anni fa eravamo dentro l’acronimo PIGS, oggi cresciamo quattro volte più dell’Italia”, osserva Diego Begnozzi, Senior Consultant del TEHA Group, specializzato in politiche del lavoro e analisi macroeconomica europea. Con lui analizziamo cosa stia realmente accadendo oltre i Pirenei.
Partiamo dal dato più evidente: mentre l’Europa rallenta, la Spagna accelera. Come si spiega un divario così marcato?
Le cause sono molte, ma le principali sono due: mercato del lavoro e consumi interni. Sembra banale, ma non lo è. Negli ultimi dieci anni la Spagna ha creato tanta nuova occupazione e, pur con una produttività moderata, avere più persone nei circuiti produttivi genera crescita. A questo si è aggiunto un forte aumento dei consumi delle famiglie, che rappresentano circa il 60% del PIL nelle economie avanzate. In Spagna i consumi sono saliti del 12-13% in dieci anni perché i salari sono cresciuti e, in certi periodi, non sono stati erosi dall’inflazione.
Cosa intende dire quando afferma che “avere più lavoratori genera crescita”, anche senza boom di produttività?
Intendo dire che, se il valore aggiunto per lavoratore non aumenta, ma aumentano i lavoratori, l’economia si espande comunque. È semplice aritmetica. Il punto è che la Spagna è riuscita a far entrare molte persone nel mercato del lavoro, mentre altri Paesi — penso all’Italia — hanno tassi di inattività molto più alti.
In altre parole la differenza non è solo tra occupati e disoccupati, ma soprattutto nella terza categoria: gli inattivi. È corretto?
Esattissimo. È un vecchio trucco da economisti: ci dimentichiamo sempre degli inattivi, persone che non lavorano e nemmeno cercano lavoro. In Spagna questo gruppo è molto più ridotto. In Italia, invece, abbiamo tantissima forza lavoro “potenziale” che rimane ai margini. Questo altera i tassi di disoccupazione e soprattutto sottrae dinamismo all’economia.
Il mercato del lavoro spagnolo ha però una fama complicata, con alto ricorso a contratti temporanei. Cosa è cambiato?

Moltissimo. Negli ultimi dieci anni sono state introdotte riforme che limitano i contratti a termine e creano una nuova figura: il lavoratore a tempo indeterminato stagionale. È fondamentale per settori come il turismo. Non è una rivoluzione, ma ha ridotto la precarietà e incentivato le imprese ad assumere. Parallelamente, il salario minimo è stato rivisto più volte al rialzo: una misura che ha incoraggiato molte persone a entrare nel mercato del lavoro.
Un altro tema di cui si parla poco è la formazione. Perché nel vostro studio risulta un elemento decisivo?
Perché la Spagna investe il doppio dell’Italia nei suoi centri per l’impiego e nei programmi di riqualificazione. Questo ha trasformato interi settori. Faccio un esempio concreto: nell’ultimo anno in Spagna sono state prodotte quattro volte più automobili che in Italia. Questo non accade per magia, ma perché è stata formata una forza lavoro con competenze adeguate e perché c’è stato un forte intervento pubblico.
E qui arriva il punto forse più controintuitivo: il ruolo dell’immigrazione. Nel vostro rapporto parlate di “opportunità migratoria”. Cosa significa?
Significa che la Spagna non gestisce l’immigrazione come un’emergenza, ma come una strategia occupazionale di lungo periodo. Dal 2012 adotta piani pluriennali che mappano le professionalità richieste dalle imprese. Non esiste un click-day: le aziende segnalano i profili di cui hanno bisogno e vengono attivati canali dedicati tutto l’anno. Il risultato? Nell’ultimo anno il 90% della nuova forza lavoro proviene da immigrati. E la popolazione spagnola cresce, mentre quella italiana cala.
Quindi, in altre parole, l’immigrazione è parte integrante della crescita?
Sì, e non da oggi. C’è un vantaggio storico: 600 milioni di persone nel mondo parlano spagnolo. I flussi dall’America Latina, sia per lingua sia per background culturale, hanno un’assimilazione rapida. Ma la vera differenza è politica: la Spagna ha scelto di trasformare un potenziale asset in un asset reale.
Passiamo all’energia. Oggi un megawattora in Italia costa circa il 50% in più rispetto alla Spagna. Come è stato possibile?
Con due leve: nucleare e fotovoltaico. Il nucleare copre stabilmente tra il 25 e il 30% del fabbisogno, mentre il fotovoltaico è cresciuto enormemente. La Spagna non ha un idroelettrico abbondante come l’Italia, quindi ha scelto altre strade. E soprattutto fa molto meno ricorso al gas, che è la fonte più costosa nel meccanismo marginale di determinazione del prezzo. Limitare il gas al 20% del mix abbatte i costi complessivi.
Anche questo contribuisce all’attrattività per gli investimenti?
Assolutamente sì. La Spagna oggi offre crescita, forza lavoro qualificata, costi energetici più bassi e un’amministrazione spesso più semplice di quella italiana o francese. Non è il paradiso, ma funziona: gli investitori vanno dove trovano domanda interna vivace e istituzioni che facilitano l’insediamento.
Prima di chiudere: è tutto perfetto o c’è un punto debole serio da correggere?
C’è un punto debole molto serio: la frammentazione amministrativa. Le 17 comunità autonome hanno competenze legislative, fiscali e amministrative molto ampie. Questo significa che un’azienda che apre uno stabilimento a Barcellona e poi vuole aprirne uno a Bilbao deve ricominciare tutto daccapo. È come cambiare Paese. Poca armonizzazione, molte complessità. È un nodo politico e amministrativo che la Spagna dovrà affrontare.
(Max Ferrario)
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