FEDERALISMO/ Dal bipolarismo “rusticano” al compromesso virtuoso

Il disegno di legge delega sul federalismo fiscale si prepara ad iniziare il suo iter in Senato dopo l’esame in commissione bilancio: nel complesso il testo del Governo ha superato la prova e si è arricchito di un contributo costruttivo dell'opposizione. Se l’ipotesi andasse a buon fine il sistema politico italiano avrebbe dato una prova di grande maturità, dimostrando si saper superare, in nome del bene comune, la logica di quel bipolarismo “rusticano” basato sulla delegittimazione reciproca che spesso ha impedito il compromesso, nel suo senso etimologico di cum promittere, ovvero “promettere insieme”

Il disegno di legge delega sul federalismo fiscale si prepara ad iniziare il suo iter in Senato dopo l’esame in commissione bilancio, che è stato arricchito da una serie di audizioni di esperti e di rappresentanti di organi istituzionali (Istat, Corte dei Conti, Isae, Banca d’Italia, ecc.).
Nel complesso, nonostante qualche isolata critica, il testo del Governo ha decisamente superato la prova; i contenuti del disegno di legge rappresentano infatti una solida sintesi dei lavori degli ultimi anni, rielaborati sulla scorta delle pronunce della Corte costituzionale e sulla decisa opzione verso alcuni valori di fondo: l’autonomia impositiva regionale e locale, la tracciabilità dei tributi, il principio di responsabilità, la sussidiarietà orizzontale, l’accontability, la premialità verso gli enti virtuosi, una forte solidarietà intesa però senza troppi sconti rispetto allo sforzo verso il recupero di un livello di efficienza media.

All’interno del lavoro in Commissione sono emerse anche alcune ipotesi di emendamento che meritano di essere considerate. In particolare si è affacciata l’ipotesi di stabilire regole idonee a garantire l’uniformità dei bilanci e la trasparenza delle decisioni di spesa e di entrata; di precisare che l’attuazione del federalismo fiscale dovrà comportare una riduzione della pressione fiscale rispetto a quella attuale; di definire, ai fini del finanziamento, le funzioni fondamentali degli enti locali e di prevedere che l’autonomia impositiva comunale si svilupperà prioritariamente riguardo agli immobili, facendo però salva l’esenzione sulla prima casa. A questo riguardo si è anche considerata l’ipotesi, che dovrà essere concretizzata dai decreti legislativi, di assegnare in via complementare a Comuni e Province una quota dell’Iva relativa al commercio al dettaglio (della piccola distribuzione), secondo una soluzione già sperimenta in Germania e avanzata anche all’interno del sistema spagnolo. Si tratta di una prospettiva che merita di essere attentamente considerata perché se una quota del gettito dell’Iva delle vendite al dettaglio rimane nel Comune, non solo gli Enti locali, ma anche la stessa popolazione, verrebbero sollecitati ad un ruolo attivo nella lotta all’evasione. Anche il consumatore avrebbe infatti interesse a richiedere lo scontrino fiscale perché una parte dell’imposta sarebbe destinata a finanziare i servizi del suo Comune. I Comuni, dal canto loro, avrebbero interesse anche a creare servizi idonei a sviluppare la rete commerciale.

Si tratta di una soluzione preferibile a quella precedente che era invece rivolta a privilegiare, nel finanziamento dei Comuni, la compartecipazione all’Irpef, che però non produrrebbe gli effetti appena considerati. D’altra parte la proposta avanzata da alcuni Comuni, soprattutto veneti, diretta a rivendicare una compartecipazione all’Irpef del 20% non è credibile, se non nei termini in cui vale come provocatoria rivendicazione di una maggiore autonomia impositiva. Il gettito dell’Irpef nazionale, infatti, ammonta a più di 150 miliardi euro. Lasciarne il 20% ai Comuni vorrebbe assegnare loro circa 30 miliardi di euro, quando il mancato gettito dell’Ici sulla prima casa è di 3 miliardi di euro, il gettito intero dell’Ici è di 10 miliardi e i trasferimenti statali ai Comuni sono pari ad altri 13 miliardi. Nel complesso se si assegnasse il 20% dell’Irpef ai Comuni si trasferirebbe loro una massa di risorse altamente superiore a quella attuale, anche prima della soppressione dell’Ici. Inoltre, esaurire l’autonomia impositiva locale in una compartecipazione di questa dimensione vorrebbe dire contraddire lo spirito stesso del federalismo fiscale: la compartecipazione infatti è un trasferimento a carico dello Stato, per cui lo Stato paga (cioè il contribuente statale) e il Comune spende senza nessuna tracciabilità del tributo. In altre parole sarebbe uno stimolo a quella spesa irresponsabile e a quella dissociazione tra responsabilità impositiva e di spesa che è proprio ciò che il federalismo fiscale è destinato, invece, a combattere.

Ma anche un’altra importante novità si è affacciata all’orizzonte, una novità di carattere più politico ma che può, nel contempo, consentire un’ulteriore sviluppo della qualità della riforma: quella di considerare alcuni dei punti qualificanti del testo sul federalismo fiscale recentemente presentato dall’opposizione. In particolare, si tratta dell’ipotesi di istituire in una Commissione bicamerale per l’attuazione della riforma, diretta a garantire il monitoraggio parlamentare del processo, secondo quanto – come ha giustamente ricordato Bassanini – si è già fatto in altre occasioni riguardo a processi di riforma di queste dimensioni. Inoltre, si tratta anche dell’ipotesi di prevedere un “patto di convergenza”, sullo stile europeo, che preveda un percorso dinamico rivolto a garantire un percorso di convergenza verso i costi standard. Su queste ed altre soluzioni si sta lavorando, nella prospettiva di aumentare il grado di condivisione della riforma. Se l’ipotesi andasse a buon fine il sistema politico italiano avrebbe dato una prova di grande maturità, dimostrando si saper superare, in nome del bene comune, la logica di quel bipolarismo “rusticano” basato sulla delegittimazione reciproca che spesso ha impedito il compromesso, nel suo senso etimologico di cum promittere, ovvero “promettere insieme”.

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