2009/ Ha senso sperare nel nuovo

Esiste un motivo ragionevole nel trovarsi ogni anno con parenti e amici, bere champagne e, magari, sparare qualche razzo per celebrare una festa che, in fondo, indica lo scorrere del tempo?

Vignetta di fine anno su un quotidiano: il piccolo 2009 avanza con la sua valigetta verso di noi e incrocia il vecchio 2008 che se ne sta andando appesantito da un grosso borsone. «Non farti illusioni – dice il vecchio al bambino – gli uomini ci accolgono con grandi festeggiamenti, ma siamo tutti precari». Certo, siamo tutti precari. E le scadenze che segnano con più chiarezza lo scorrere del tempo, come il passaggio da un anno all’altro, mostrano con evidenza l’inesorabilità di questa legge. Eppure festeggiamo proprio quelle scadenze. Come se nascosto dentro alla precarietà ci sia il barlume di una speranza, dell’avvicinarsi di qualcosa che confusamente attendiamo.

Péguy diceva che Dio stesso si stupisce che gli uomini tutte le sere sperino che l’indomani andrà meglio. I puri calcoli dei pro e dei contro non lascerebbero spazio ad una simile conclusione. E quello che abbiamo visto nel 2008 – pensiamo solo alla crisi economica o al riesplodere della guerra proprio negli ultimi giorni dell’anno – sarebbe sufficiente per toglierci qualsiasi speranza che il futuro possa riservarci qualcosa di meglio. Eppure abbiamo festeggiato la fine di un anno e brindato all’inizio del nuovo. Tenacemente, cocciutamente abbiamo aperto lo spumante perché speriamo che il 2009 sia veramente «nuovo».

Ma c’è qualcosa di ragionevole in questa speranza? Oppure essa è, in fondo, una illusione destinata a svanire già la mattina seguente la baldoria del veglione? Sempre Péguy, il grande cantore della «piccola bambina speranza», ha detto che «per sperare bisogna essere molto felici, bisogna aver ricevuto una grande grazia». E Dante, interrogato sulla seconda virtù teologale, ha risposto che speranza è un «attender certo». Solo in questa certezza sta la ragionevolezza dello sperare. Certezza di che cosa? Certezza che la precarietà, che il cinico «tutto passa, non facciamoci illusioni» non è l’ultima parola che definisce il nostro tempo.

Le religioni dell’antichità ritenevano che lo scorrere del tempo fosse l’inesorabile decadenza da un primitivo stato di felicità, l’età dell’oro. Per altre il tempo della storia è come un ciclo eternamente ricorrente di vicende sempre in fondo uguali a se stesse. Gli ebrei, invece, ci hanno insegnato a pensare al tempo come ad una retta che procede verso il compimento finale, la venuta del Messia. Il cristianesimo ha ereditato questa visione positiva del tempo, con una decisiva innovazione: il compimento non si trova alla fine della retta della storia, ma in un punto preciso in mezzo ad essa, il punto storico in cui il compimento di tutta la storia è diventato un elemento di essa: Dio diventato uomo. Siamo già nella «pienezza dei tempi» e aspettiamo solo che essa si manifesti completamente. È questa la certezza che fonda la speranza.

Ma allora, per dirla ancora con Péguy, tutte le mattine ci si può svegliare come se fosse «il primo giorno della creazione», precari, ma sicuri del tempo che si preannuncia e padroni del suo svolgersi.

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