Viva il piccolo mondo antico
Le posizioni espresse da Alberto Alesina e Andrea Ichino in un articolo pubblicato dal Sole 24 Ore tendono a contrastare quel che di buono la tradizione italiana ha costruito nel tempo

Nell’ambito del comitato scientifico per l’area Economia promosso da Regione Lombardia per varare la messa a punto e la pubblicazione del rapporto di fine legislatura ho avuto modo di confrontarmi nell’ultimo mese con molti colleghi economisti e con qualche aziendalista.
Tra i tanti temi in discussione uno mi è parso di particolare interesse e di più difficile composizione: nella lettura sostanzialmente preoccupata degli economisti il dato sulla produttività decrescente delle imprese lombarde, ma più in generale di quelle italiane, occupa una posizione di sicura preminenza; dall’altra parte si è sottolineato l’emergere ciononostante in regione, ma più in generale in Italia, di un modello peculiare di sviluppo fondato su imprese di piccola e media dimensione, di proprietà familiare, dal forte imprinting imprenditoriale e manifatturiere.
Si tratta di cose entrambe vere, ma mentre per i primi il valore in diminuzione della produttività inficia l’esistenza stessa di un possibile modello positivo, c’è maggiore disponibilità da parte dell’altra componente a teorizzare la possibile coesistenza dei due aspetti.
Questo stimolante confronto mi si è riproposto leggendo l’articolo di Alberto Alesina e Andrea Ichino (Il Sole 24 Ore del 29 ottobre) di cui, pur consigliandone caldamente la lettura integrale, riporto qui ampi stralci. «(In molti italiani c’è la voglia di) un ritorno al “piccolo mondo antico”. […] Un mondo in cui il welfare lo fa la famiglia, centrata sull’uomo che lavora nel mercato e la donna che lavora in casa, con nonni figli e nipoti che vivono e si assistono gli uni con gli altri senza mai allontanarsi dal focolare.
Un mondo in cui lo stato non offre assicurazione sociale se non con le pensioni e con la sicurezza del posto fisso per un membro (e uno solo) della famiglia, garantito attraverso l’impiego pubblico e una legislazione del lavoro che ingessa il mercato e impedisce l’allocazione ottimale dei lavoratori nelle imprese. […] È una visione che ha una sua coerenza, fondata sull’avversione al rischio, la tranquillità, il rifiuto del multiculturalismo a favore dell’uniformità, magari definita da una religione unica, il cristianesimo. […]
La famiglia italiana è una formidabile unità produttiva, i cui servizi, frutto soprattutto del lavoro familiare delle donne, non sono contabilizzati nelle statistiche ufficiali, pur essendo più consistenti che in altri paesi. Ma affidare alla famiglia un ruolo così centrale ha dei costi molto alti. La coesione familiare riduce la fiducia verso il mondo esterno alla famiglia, diminuendo anche l’attenzione verso il bene pubblico e quindi il “capitale sociale”.
La mancanza di mobilità geografica e sociale ostacola la meritocrazia e la concorrenza fra persone e imprese. La conseguenza è una minore produttività che si traduce in salari e profitti più bassi. È un mondo che altri paesi hanno progressivamente abbandonato, e per questo, non a caso, l’Italia sta perdendo rapidamente posizioni relativamente a questi paesi e continuerà a farlo se a questo mondo rimarremo attaccati».
Riconosco ad Alberto Alesina, mio compagno di studi e a quei tempi, soprattutto, mio antagonista politico, di non aver calcato la mano nel manifestare le proprie chiare opinioni, di non essere stato fazioso riconoscendo alla famiglia il valore economico di una vera e propria “unità di offerta”, ma ritengo assolutamente non condivisibile la proposta sottostante, non formulata ma evidente: se vogliamo recuperare produttività e posizioni dobbiamo abbandonare la peculiarità familiare.
No, no, no, non possiamo ridurre tutto ad indici a cui sacrificare quanto di meglio la tradizione italiana, non senza ovvi limiti, ha saputo costruire. Occorre piuttosto cambiare gli indici per far si che sappiano misurare questa peculiarità. Ciò vale per la famiglia, ma anche per la piccola e media impresa che continua a garantire (non c’è solo lo stato) milioni di posti di lavoro in cui la vera assicurazione sociale è il rapporto di fiducia e di utilità reciproca tra imprenditore e collaboratori. Occorrerà ritornarci.
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