Un secolo senza sbocchi

Il conflitto tra israeliani e palestinesi ha radici profonde e si è trasformata in una guerra religiosa diventando un groviglio secolare

In quel salotto londinese la storia avrebbe potuto prendere un’altra direzione: un giorno all’inizio del secolo scorso, di ritorno da un viaggio nei possedimenti inglesi dell’Africa nera, lord Chamberlain ricevette in visita Teodoro Herzl e sorseggiando un tè gli disse: “Sono tornato dall’Africa orientale, ho visto un Paese per voi: l’Uganda, dove c’è un clima eccellente per gli europei e tra me e me ho pensato: ecco un posto per il dottor Herzl”.

In quel periodo il fondatore del sionismo bussava alle porte delle Grandi Potenze alla ricerca di una terra per gli ebrei dell’Europa orientale, russi soprattutto, stanchi dei continui pogrom e delle ondate antisemitiche che squassavano la vita di quelle comunità. La proposta inglese non gli dispiacque e la riferì al Congresso ebraico del 1903 come una interessante “soluzione transitoria”.

Ma il Congresso non si fidò e in quella e nelle sessioni successive bocciò l’opzione ugandese: l’unica terra per gli ebrei era e doveva essere la terra dei Padri, la Palestina. La storia non prese quella direzione e nel 1917, a Grande Guerra ancora in corso e mentre l’inviato di Londra colonnello Lawrence prometteva agli arabi la creazione di un grande regno in cambio della loro rivolta contro l’Impero Ottomano, il governo di Londra riconosceva agli ebrei il diritto a un “focolare domestico” in terra palestinese.

“Focolare domestico”. Una ben strana espressione con la quale la maggior parte dei testi in italiano traducevano la parola inglese homeland, anch’essa in verità piuttosto equivoca: si trattava di uno Stato, di una terra, di una proprietà? E con quali confini, con quale assetto? In quegli anni il problema sembrava (agli inglesi) ancora contenibile.

Lo storico Benny Morris ha documentato minuziosamente (nel libro Vittime, edito da Rizzoli) l’inizio e lo sviluppo della storia dei rapporti tra ebrei e arabi in terra di Palestina. I primi insediamenti, gli scambi economici, l’osservarsi reciproco in una altalena di interesse e sospetto, voglia di collaborazione e spinta alla separazione.

Finita la Seconda Guerra mondiale, la Gran Bretagna, ormai odiata dagli arabi e invisa agli ebrei, abbandona il “Mandato” sulla regione, la nascente organizzazione delle Nazioni Unite tenta una spartizione della terra in due Stati, il progetto (che per i palestinesi risulta più vantaggioso delle possibili soluzioni successive) viene sdegnosamente respinto dagli arabi, gli ebrei dichiarano la nascita dello Stato d’Israele, scoppia la prima guerra arabo-israeliana.

Ripetutamente aggredito e sistematicamente minacciato di estinzione, Israele erige la barriera della forza. Ci sarà una seconda guerra nel 1967 e una terza nel 1973. Alle quali si affiancheranno le invasioni israeliane del Libano (1978, 1982 e 2007), la prima e la seconda Intifada palestinese (1987 e 2000), il muro, le guerre di Gaza. Per molto tempo la natura del conflitto è stata essenzialmente nazionale e politica. Non ebrei e musulmani, ma israeliani e arabi.

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Le organizzazioni palestinesi erano rigorosamente laiche, marxiste in qualche caso, e lo erano anche i governi arabi. Viene dal Libano una prima marchiatura religiosa: nel corso della lunghissima atroce guerra “civile” (civile lo era parzialmente) sono proprio i cristiani a trovarsi opposti ai palestinesi e ai musulmani libanesi. Sentivano minacciata l’esistenza del Libano e con essa la possibilità di esistere in quanto cristiani libanesi.

 

Ma è con l’avvento della rivoluzione khomeinista nell’Iran del 1979 e con la rivolta antisovietica dei mujahiddin afghani che comincia l’islamizzazione delle guerre medio-orientali. Nell’82 nasce nel sud del Libano la milizia sciita Hezbollah e a partire dagli anni successivi nei territori occupati di Gaza e della Cisgiordania, lentamente ma tenacemente l’organizzazione sunnita Hamas soppianta la laica Olp.

 

Negli ultimi anni, prima in Libano poi in Israele Iraq e Afghanistan si è scatenato il fenomeno del terrorismo islamista e parole come martiri e kamikaze sono diventate tristemente familiari. Oggi sembra che niente e nessuno riesca a districare il secolare groviglio. Non la forza militare, non le politiche dei protagonisti, sempre più inespressive, né tantomeno la comunità internazionale, sempre più inerte. Con nostalgia e rimpianto si possono consultare innumerevoli documenti ecclesiali e appelli papali. Una saggezza umana, morale e politica del tutto ignorata.

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