La dittatura digitale e lo stupore

Frank Schirrmacher, il direttore del Frankfurter Allgemeine Zeitung ha pubblicato un saggio molto allarmato sulla possibile «dittatura digitale». Il fatto è che affidiamo alla rete, anche inconsapevolmente, molte informazioni che non si disperdono e possono essere utilizzati per vari scopi. L'editoriale di PIGI COLOGNESI

Frank Schirrmacher, il direttore dell’importante quotidiano tedesco Frankfurter Allgemeine Zeitung, ha da poco pubblicato un saggio molto allarmato sulla possibilità che si attui presto una «dittatura digitale». Il fatto è, spiega in una recente intervista a La Repubblica, che software complessi e giganteschi motori di ricerca stanno trasformando noi uomini in pure «formule matematiche». Con gravi pericoli: lo strumento tecnologico che «adesso aiuta a scegliere un buon ristorante o a fare acquisti», domani potrà giudicare «quali esseri umani sono buoni e quali cattivi o pericolosi o inutili».

La prova? Sofisticati software, incrociando milioni di dati, «suggeriscono ai dirigenti aziendali di promuovere questo e di licenziare quest’altro che fra cinque anni sarà buono a nulla».
Se poi ordini un libro on line, dopo pochi secondi la macchina sa quali sono i tuoi gusti e ti arriva, via posta elettronica, il suggerimento per un ulteriore acquisto. Affidiamo alla rete, anche inconsapevolmente, molte informazioni su di noi e pensiamo che si disperdano in essa, invece potenti strumenti informatici le sanno ripescare e utilizzare per precisi scopi.

Pesanti sono anche le ricadute sul mondo dell’informazione: i giornalisti, dice il direttore del quotidiano tedesco, scrivono in modo tale che l’algoritmo dei motori di ricerca capti e rilanci il proprio articolo. «Scriviamo per le macchine e non più per i lettori», conclude. Inquietanti le possibili intromissioni nella sfera più intima, come dimostra il successo dei siti che calcolano le caratteristiche della propria anima gemella; per non parlare della sfera politica. Insomma, dice Schirrmacher, «Il dominio del calcolo matematico sugli individui e sulla mente umana si estende in ogni campo, e ciò è molto pericoloso».

Non so se questa diagnosi sia del tutto realistica oppure pecchi di eccessivo catastrofismo. È comunque interessante osservare che proprio un certo concetto di ragione, quello per cui l’unica conoscenza attendibile è quella capace di ridurre ogni aspetto del reale a formula matematica, sta producendo una conoscenza che è sì sterminata, ma che assume anche contorni minacciosi.

 

 

Quale terapia suggerisce Schirrmacher? Tornare a «vivere nella dimensione dell’imprevedibilità, momento costitutivo dell’essere umano».
Dunque la via d’uscita è l’imprevedibile, l’imprevisto. Lo affermava già Eugenio Montale nella sua poesia Prima del viaggio: «Un imprevisto/ è la sola speranza».
Ma cos’è l’imprevisto? Se è solo quello che non siamo ancora riusciti a inscatolare nella nostra ragione razionalisticamente matematica, non si può sperare in esso; in poco tempo anche quell’imprevisto diventerà ovvio, scontato, calcolato. Per una ragione aperta, invece, l’imprevisto è la profondità del normale.

Una pagina che ho letto molte volte può sorprendermi di nuovo, un viso da tanto conosciuto può rivelare una sfumatura inattesa, un oggetto quotidiano può essere guardato stupendosi del suo stesso esserci. Ecco la parola: stupore.
San Gregorio di Nissa ha scritto: «I concetti (cioè quello che sappiamo già con la nostra ragione calcolante) creano gli idoli (e l’idolo divora sempre il suo costruttore). Solo lo stupore conosce».

È la ragione bambina, capace di stupirsi, che coglie l’imprevedibile anche nella cosa più usuale, nel rapporto più abitudinario. Solo nello stupore ogni brandello di realtà diventa perciò un avvenimento, cioè proprio l’irrompere dell’imprevisto. Una civiltà in cui si pretenda di conoscere senza stupore è sulla soglia dell’ignoranza più radicale. Ma il pericolo non viene dai mezzi di cui essa dispone, bensì dalla concezione di ragione.

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