CRISI/ Tre fattori da difendere

Ciò che ci può aiutare a ridurre la portata della crisi è, a ben vedere, lo stesso patrimonio su cui si è costruito negli ultimi sessant’anni il bene comune: persona, famiglia, impresa

La crisi c’è, ma il Paese ce la può fare. Così scrivevo settimana scorsa elencando una serie di punti, tra i possibili, a sostegno di questa tesi. Giuseppe De Rita con un fondo sul Corriere di giovedì (“Se il Paese non sbanda”) e Giuliano Ferrara dedicandovi venerdì una puntata della sua trasmissione su Radio24, con ospiti Giuseppe Roma, Francesco Alberoni e Aldo Bonomi, hanno sostenuto, con sfumature diverse, la stessa tesi. Lo sottolineo, oltre che per indubbio piacere di trovarmi in tale compagnia, per prendere atto che prima che di una comune posizione economica si tratta di una specifica impronta culturale.

 

Che persone dalla così diversa età, storia, formazione, pensiero politico arrivino a conclusioni simili, su questo tema ma anche su altri, dice di un modo comune di guardare alla realtà e di concepire il proprio lavoro. Di entrambi ovviamente si può pensare tutto il male possibile, soprattutto in ambito intellettual-accademico; di certo c’è una passione nel conoscere quello che succede, piuttosto che imporre al reale la propria astratta visione spesso ideologica, e di valorizzare il positivo che in esso c’è, piuttosto che indicare comportamenti personali e sociali ritenuti virtuosi perché alternativi. Quello che ne deriva è più un diario di vita che una previsione, ma ormai sappiamo quanto facilmente queste ultime siano destinate al fallimento.

Se il Paese non sbanda è perché sa ridistribuire, almeno nel medio periodo, gli effetti della crisi sul piano territoriale, sociale, settoriale e familiare: così De Rita. Questo dice di una peculiarità italiana, magari con tratti pre-moderni e provinciali se paragonata al mondo post-moderno, che va dunque riconosciuta e difesa perché è da qui che, passata la nottata, si potrà ripartire. Ciò che ci può aiutare a ridurre la portata della crisi è, a ben vedere, lo stesso patrimonio su cui si è costruito negli ultimi sessant’anni il bene comune: persona, famiglia, impresa.

Il compito da rilanciare allora, anche in piena crisi, è l’educazione della persona, il sostegno alla famiglia e la sottolineatura della responsabilità dell’impegno imprenditoriale. Quando si annuncia una piena occorre fare pulizia attorno ai piloni del ponte per evitare che il materiale trasportato dal fiume, facendo diga, finisca con il travolgere tutto.

L’educazione della persona è alla base, tra mille altre cose, di quella propensione al risparmio che nel secondo punto di settimana scorsa identificavo come uno dei tratti tipici dell’agire economico del nostro popolo. Tale propensione è evidentemente l’elemento finale di una concezione di vita che assegna il giusto valore alle cose, che guarda al lungo periodo, che non subisce le mode pur vivendole, che non è né consumistica, né pauperistica. Una concezione di vita improntata in fondo al buon senso, quel buon senso che le nuove generazioni stanno smarrendo per mancanza di maestri.

La famiglia è dei tre fattori quello più a rischio e dunque necessità maggiori attenzioni. Se è vero, come dicevo nel mio primo punto, che la solidarietà intergenerazionale e familiare attutisce i contraccolpi economici della crisi ciò è perché da noi la famiglia ha ancora dei confini sociali sufficientemente delimitati, è un nucleo della società relativamente stabile. Su questo occorre mantenere desta l’attenzione, moltiplicando le energie per fare emergere il valore anche civile ed economico di questo istituto. Le famiglie con molti figli, ad esempio, così poco aiutate colpevolmente dal settore pubblico, sono anche quelle in cui la solidarietà intergenerazionale più facilmente sarà biunivoca: oggi gli adulti sostengono i più giovani, domani i secondi con maggiori probabilità sapranno assistere i primi, se non altro per una questioni di numeri.

Infine, l’impresa che riguardava gli altri otto punti. Porre al centro della riflessione l’impresa, qualunque impresa, pubblica o privata, piccola, media o grande, di persone, di capitali o cooperativa, manifatturiera o di servizi, industriale o artigiana, significa riconoscere innanzitutto che questa costituisce l’insuperato motore di qualunque diffuso e duraturo sviluppo economico. Uno strumento da difendere e di cui occorre agevolare l’azione. Abbiamo un patrimonio di imprenditorialità diffusa che, in un recente passato, sia la cultura marxista, sia parte di quella cattolica hanno contrastato o, almeno, sottovalutato: oggi occorre invertire la rotta valorizzando, in particolare, la responsabilità personale dell’agire imprenditoriale.

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