La crisi passa, l’impresa resta

La crisi passa, l’impresa resta: per questo può essere utile metterla a tema e approfondirne alcune linee guida

È ora di voltare pagina. Quello che penso sulla crisi in corso lo avete capito: che abbia torto o ragione lo si vedrà con il passare del tempo come per qualunque altra posizione in campo. Da diversi punti di vista ho cercato di sostenere negli ultimi tre mesi la tesi di una positività fondata sulle caratteristiche strutturali del nostro fare economia. Può darsi che ci si debba tornare pressati da specifiche circostanze, ma mi sembra giunto il momento di spostare l’attenzione un po’ più in là, quando, prima o poi, tutto tornerà a scorrere secondo ritmi più abituali.

 

Molto sarà cambiato per effetto stesso della fase che stiamo attraversando, ma una cosa, dal mio punto di vista, resterà al centro dell’attenzione: l’impresa come fattore insostituibile di occupazione, ricchezza diffusa e benessere. Non c’è coesione sociale senza lavoro, non c’è lavoro stabile nel tempo senza impresa, non c’è impresa senza persone, gli imprenditori, che rischiano in proprio per trasformare un’idea in bene o in un servizio: questo era vero ieri e lo sarà anche domani.

Dario Di Vico, Maurizio Ferrera e Giuseppe De Rita hanno riportato settimana scorsa sulle pagine del Corriere il tema dei piccoli produttori sottolineandone la scarsa rappresentanza politica e associativa e la grande voglia di far sentire la propria voce a difesa di interessi legittimi. È un tema centrale, di grande attualità, ma di difficile concretizzazione.

In parallelo alla ricerca di una leadership occorre investire sulla valenza culturale del fare impresa: sarà più facile fare rappresentanza di interessi quando sarà accettato da strati molto più ampi di popolazione rispetto a oggi il valore dell’impresa e dell’imprenditore. Ricordo che ancora pochi giorni fa il più importante uomo dell’opposizione, al di là dei ruoli nel partito democratico, definì «padronale, cioè aziendale» l’azione del primo ministro.

L’imprenditore per alcuni è ancora il padrone, l’azienda al fondo un luogo di strutturale conflitto e un ufficio pagatore. Oggi, invece, l’impresa, soprattutto quella di piccole e medie dimensioni, in molti casi è uno spazio privilegiato dove poter vedere una passione in azione, almeno quella dell’imprenditore, dove fare esperienza di un’unità costruttiva, dove poter trasmettere e apprendere una tradizione operativa e al tempo stesso confrontarsi con la necessità dell’innovazione. Una realtà al fondo educativa perché entusiasmo e passione, unità e progettualità, confronto intergenerazionale e responsabilità personale sono elementi, insieme ad altri, di ogni percorso educativo.

Con la fragilità della famiglia, l’impoverimento della scuola e l’astrattezza dello Stato, l’impresa, con le sue evidenti dinamiche di incontro di interessi, può rappresentare uno spazio educativo privilegiato. Dico l’impresa come spazio di incontro tra destini, bisogni e talenti ed è chiaro che penso dunque soprattutto alla piccola realtà produttiva dislocata nei centri della provincia più che alle filiali delle multinazionali con uffici nel centro delle grandi città. Ma la differenza la fa la persona e dunque è un’esperienza possibile ovunque. Dico l’impresa più che il lavoro perché oggi più che mai c’è bisogno di ambiti in cui fare esperienza di significato.

La crisi passa, l’impresa resta: per questo può essere utile metterla a tema e approfondirne alcune linee guida.

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