Che fai tu, luna, in ciel?

Lunedì prossimo avremo senz’altro modo rivedere Neil Armstrong che scende - era il 20 luglio 1969 - l’ultimo gradino del Lem dell’Apollo 11 per lasciare la sua impronta sulla polvere lunare

Si avvicina l’anniversario dello sbarco del primo uomo sulla luna. Lunedì prossimo avremo senz’altro modo rivedere Neil Armstrong che scende – era il 20 luglio 1969 – l’ultimo gradino del Lem dell’Apollo 11 per lasciare la sua impronta sulla polvere lunare. E avremo anche modo di essere informati sulle numerose manifestazioni programmate per festeggiare l’evento; è stato persino approntato un applicativo che consente di fare tour virtuali sulla superficie del nostro satellite. Non mancheranno neppure di tornare alla ribalta le tesi di chi sostiene che si sia trattato di una colossale bufala.

 

Comunque sia, quel giorno di quarant’anni fa ha profondamente cambiato la percezione che noi abbiamo della mutevole compagna delle nostre notti. Nel 1969 ero un bambino e la sensazione che mi è stata trasmessa è stata soprattutto quella della onnipotenza della tecnica umana: nessuna barriera si opponeva più alle possibilità della scienza. L’Ulisse tecnologico aveva oltrepassato le colonne d’Ercole del nostro piccolo pianeta e si era lanciato nell’infinito spazio della navigazione cosmica. Poi, in realtà, si è scoperto che la luna non è così interessante o almeno per ora non si è capito a cosa ci possa servire esserci andati.

Resta l’immagine dell’impronta di Armstrong sulla polvere del nostro satellite; impronta incancellabile perché sulla luna non c’è niente, neanche il vento o la pioggia che, qui da noi, cancellano i segni dei nostri passi. In fondo, la luna è solo un sasso. Ecco, questa è la nuova percezione che quel viaggio di quarant’anni fa ci ha lasciato.

Per fortuna la poesia parla un altro linguaggio. Il linguaggio di uno stupore, di fronte al silente astro notturno, che nessuna constatazione «scientifica» riesce, almeno per ora e almeno in certi momenti di semplicità, a eliminare del tutto.

Uno straordinario frammento di Saffo inizia così: «e tra le stelle la bella luna», ma questo limpido verso basta a ricordarci che quella palla luminosa nel cielo, sarà sì, pure un’arida pietra che ci ruota intorno per la legge della gravitazione universale, ma è «bella»; e questo è sorprendente. Tanto bella che Dante la usa come immagine per raffigurare la prima visione che ha di Cristo attorniato da tutti i beati del paradiso. Essi sono ancora solo delle luci che appaiono al poeta come stelle («ninfe etterne») che fanno da corona a Cristo-luna («Trivia») che «ride» in una pienezza serena e dolcissima: «Quale ne’ plenilunii sereni / Trivia ride tra le nife etterne / che dipingono lo ciel per tutti i seni».

E, anche se l’ho già fatto nell’editoriale della settimana scorsa, non posso non ricordare Leopardi. Il grande poeta di Recanati ha intessuto con quello che a noi può sembrare solo un sasso un dialogo ininterrotto e affettuoso (gli aggettivi con cui la qualifica sono: aurea, graziosa, diletta, cara). Dai primi versi, non a caso, de L’ultimo canto di Saffo: «Placida notte, e verecondo raggio / della cadente luna» al Tramonto della luna, per finire al Canto notturno di un pastore errante dell’Asia. Proprio qui, fin dalle parole iniziali, il linguaggio della poesia ci libera dall’appiattimento dello sguardo tecno-scientifico. Con una domanda: «Che fai tu, luna, in ciel?».

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