Il gioco dei commenti a caldo

Lo sconcerto per le discussioni scatenate sul web di fronte alla tragedia di Viareggio

Martedì scorso, mattina. Appena arrivato in ufficio, apro la pagina del Corriere on line, per vedere le ultime notizie. Mi accorgo subito che è successo qualcosa di grave, perché, invece della solita grafica, la prima cosa che mi appare sullo schermo è una grande foto. Poi il titolo: un treno carico di materiale infiammabile è esploso a Viareggio. Non lo sapevo ancora e vado subito a leggere i dettagli della notizia: quanti sono i morti, le probabili cause, i feriti. Penso se in zona abita qualcuno che conosco.

Dopo un po’ di tempo riapro la pagina per seguire gli aggiornamenti. Solo ora mi accorgo che di fianco alla foto sotto il titolo c’è un link. Che suggerisce: «Commenta». Sono sconcertato. Come si può «commentare» un fatto così? Si commenta una partita di calcio, il discorso di un politico, una canzone, una legge. Ma una tragedia di queste proporzioni come si fa a «commentarla»? Lo sconcerto aumenta quando vado a leggere qualche intervento dei lettori: si va dal dietrologo che fa nessi con le difficoltà del Presidente del consiglio e il G8 a chi gli dà dello sciacallo; dai tanti che lamentano le pessime condizioni delle ferrovie italiane a chi si chiede come mai sia potuto succedere. Non riesco a togliermi di dosso l’impressione che queste parole siano una specie di sacrilego gioco. Sacrilego nei confronti di chi è morto, ferito, ha perso la casa. Gioco perché in qualche modo molti «commentatori» è come se si chiamassero fuori, si dedicassero ad un esercizio verbale che va bene, appunto, se si è al bar a parlare del campionato o, anche, delle elezioni. Ma non qui. Non adesso.

Riconosco che alcuni commenti sono assennati; tutti capiamo che ci sono responsabilità, inadempienze, colpe per quello che è successo. Ed è giusto che si cerchino le cause, si individuino i responsabili e, se del caso, li si persegua, che si studino rimedi. Ma è la questione del «commentare» che non riesce ad andarmi giù. La trovo stonata.

È uno stato d’animo che mi accompagna per tutto il giorno, tutte le volte che torno su quella pagina per sapere se ci sono novità. Cerco anche di contestare questa mia impressione. Mi dico che in fondo io sono stato educato a giudicare tutto; quindi anche un fatto così. È allora che mi pare di capire dove sta la differenza tra «giudicare» e «commentare». La prima cosa che chi giudica deve fare è lasciarsi toccare, coinvolgere, provocare da quello che deve giudicare. Giudizio non è un asettico parere dato su qualcosa che in fondo non mi riguarda; ciò che voglio giudicare ha una pretesa su di me, mi vuol dire qualcosa, mi interpella, mi chiede di cambiare. Commentare, invece, lo si può fare anche senza coinvolgersi; in fondo si tratta solo di ridire sul caso in questione qualcosa che si sa già. Per poi passare ad altro.

L’esito del commento è un infinito fiume di parole che si sovrappongono. Alla fine tutte ugualmente indifferenti. Il giudizio è preceduto da un attimo di silenzio. Di fronte ai morti di Viareggio, un silenzio carico di dolore.

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