Il grande equivoco

Maggioranza e opposizione sembrano non accorgersi che invocare la necessità di un cambiamento, in qualsiasi settore lo si voglia attuare evoca necessariamente il tema dell’accordo

La parola più citata nel dibattito politico attuale, il “best seller” delle dichiarazioni delle più alte cariche del nostro Paese è oggi, senza alcun dubbio, la parola riforma e la sua omologa forma verbale, il verbo riformare. Siamo, a quanto pare, un paese da riformare, avendo una costituzione, un fisco, una pubblica amministrazione, una scuola (e in particolare i licei), un’università e un sistema giudiziario da riformare, da cambiare sperando nel meglio perché l’oggi è, per più versi, insoddisfacente.

Per cambiare sul piano strutturale, maggioranza ed opposizione devono, in qualche modo, convergere, e questo non è un punto da poco se si considera che, invece, la nostra forma di governo si è avviata – dopo Tangentopoli e dopo le riforme elettorali – a grandi passi verso logiche (oltre che verso sistemi elettorali e schieramenti politici) da democrazia maggioritaria. Invocare la necessità di un cambiamento, in qualsiasi settore lo si voglia attuare – ma eminentemente in materia costituzionale – evoca necessariamente il tema dell’accordo, del concordare oltre le contingenti maggioranze politiche su idee, progetti e valori almeno in parte divergenti. Il che è positivo.

Crisi economica ed inefficienze di un sistema istituzionale obsoleto in moltissimi suoi aspetti chiamano – oltre la contrapposizione volta a guadagnare consensi – a mettere in atto progetti e processi la cui razionalità e la cui giustizia sostanziale siano il collante tra le diverse fazioni ma anche tra governanti e governati, elementi che rafforzino la fiducia nelle istituzioni e nella loro capacità di perseguire il bene comune (espressione certo trita ma di cui è difficile prescindere, così come è difficile prescindere dal nostro desiderio di felicità, di bellezza e di giustizia).

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Quando gli attori di un sistema istituzionale si dicono disposti a ideare e ad appoggiare progetti di riforma, essi dichiarano ad un tempo la loro disponibilità a cercare dialogo e convergenze. Questo è l’aspetto formale della questione ed è da valorizzare appieno. Ma, poi, occorre entrare in merito e questi progetti, farli (e discuterli) davvero: così, visto che può essere ritenuto necessario adattare la forma di governo prevista in Costituzione alla realtà del nostro sistema politico e della nostra forma di governo (la famosa seconda parte della Costituzione del 1948), si formulino ipotesi e si valutino quelle sul tappeto (la riforma della seconda Camera, i poteri del Presidente della Repubblica rispetto a quelli del premier, i poteri del Parlamento in relazione a quelli normativi del governo, le procedure per consentire al governo di governare e al Parlamento di non soccombere sotto la logica dei maxiemendamenti) fino al drammatico problema della riforma della giustizia, che davvero va affrontato per il bene del Paese e non solo per il bene di uno dei suoi abitanti.

 

Il punto di stallo (leggi bocciatura del lodo Alfano da parte della Corte costituzionale) cui si è giunti sul tema delle immunità delle alte cariche dello Stato, con tutte le contraddizioni che esso ha messo in luce, non sia motivo per abbassare la guardia e evacuare i problemi: processi troppo lunghi versus processo breve, incoerenze del sistema processuale versus sospensione dei processi (due, tre o un mese e mezzo che cosa cambia?), un sistema di immunità delle alte cariche dello Stato da ripensare versus legittimo impedimento. Chi si mette per traverso dovrebbe chiarire se difende una classe che ha preso uno spazio che non le compete o se difende il sistema nella sua integrità; il che comporta che non si parli solo di riforme per dire “conto anch’io” ma che se ne parli con proposte su cui aprire un dibattito che contribuisca, come ha detto il presidente Napolitano, a un ritorno di lucidità e di misura nel confronto politico.

 

 

 

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