La commozione di san Carlo

Giovedì è la festa annuale di san Carlo Borromeo e oggi ricorrono i quattrocento anni della sua canonizzazione

Questa settimana si apre all’insegna dei santi. Ce n’è uno che, per ragioni di ricorrenze, s’impone. È san Carlo Borromeo; giovedì è la sua festa annuale e oggi ricorrono i quattrocento anni della canonizzazione.

 

È sempre imbarazzante parlare di un santo. Da un lato ho bisogno che il santo ci sia, perché è la documentazione esistenziale, concreta, che l’umanità autentica che desidero è storicamente possibile. Dall’altro rischio sempre di cadere nell’insoddisfazione determinata dalla considerazione della lontananza che mi separa da questi esempi di santità storica.

Distanza che, nel caso di san Carlo, assume proporzioni macroscopiche. Chiunque si sia accostato alla sua biografia non si capacita di come in nemmeno venti anni di episcopato a Milano sia riuscito a fare tutto quello che ha fatto: visitare più volte, spesso a dorso di mulo, tutte le parrocchie della sterminata diocesi, convocare sinodi e concili locali, istituire congregazioni e ordini religiosi, dedicarsi alla predicazione, assistere i poveri e curare malati e morenti, dettare numerose lettere, curare gli affari temporali della Chiesa, dedicasi a penitenze e pellegrinaggi.

La Chiesa dei suoi tempi aveva, come in tutti i tempi, le sue difficoltà e le sue magagne. La riforma di molti ordini religiosi, ad esempio, era improcrastinabile e san Carlo la intraprese con energica determinazione; fino al punto di farsi sparare da un ex frate che non aveva per nulla gradito il suo severo rigore. Dall’esterno, poi, la minaccia del protestantesimo era incombente e la sua penetrazione dal nord luterano o calvinista una possibilità reale. Ma san Carlo non si è attardato nemmeno un istante a lamentarsi della «cattiveria dei tempi», come direbbe Péguy, né ha perso tempo in scrupolose analisi o nell’elaborazione di sofisticate ipotesi di soluzione. Lui ha semplicemente «fatto il cristianesimo».

A partire da se stesso. In un celebre dipinto, Daniele Crespi lo ha ritratto mentre, seduto a un tavolo spoglio, legge un libro e nel frattempo pranza – o, meglio, digiuna – a pane a acqua; il volto poggia sulla mano sinistra, che tiene un fazzoletto, come di chi avesse bisogno frequentemente di asciugarsi le lacrime. Certo, l’immagine del patrono milanese che ci è stata trasmessa negli oratori e nelle parrocchie della diocesi è quella, per noi oggi un po’ fastidiosa, del grande penitente dal volto triste e severo.

Ma ripensandoci ora, forse la sua non era innanzitutto severità, ma commozione. E non ci si commuove per il male, per il peccato; ci si commuove per la persona cui si è fatto male, per la cosa bella che si è infangata. San Carlo portava sempre con sé il confessore, per riceverne il sacramento anche quotidianamente. Non era scrupolo bigotto, era un affetto perpetuamente mobilitato.

 

Per difendersi dagli attacchi esterni, poi, san Carlo non aveva nessun’altra strategia che quella di chiamare tutti alla conversione. Per sostenerla ha disseminato le montagne della diocesi di Sacri Monti, tra cui quello amatissimo di Varallo. Dovevano costituire come un antemurale a difesa dalla minaccia protestante. Ma cappelle e statue potevano servire solo in quanto espressione e al contempo stimolo della viva fede della gente che le visitava, vi prestava la sua opera, faceva sacrifici per contribuire con la propria offerta. In fondo, fatte salve le proporzioni e i diversi compiti cui ognuno è chiamato, una santità semplice.

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