Testori, la crisi e il Manzoni

Se fosse ancora vivo, scrive GIUSEPPE FRANGI, Testori avrebbe speso molte parole per descrivere il dramma che vivono oggi i giovani

Che cosa avrebbe scritto uno come Giovanni Testori a bilancio del decennio che si sta per concludere? È una domanda che mi faccio spesso, per ragioni personali e professionali, e che mi sento fare da molti in incontri pubblici e privati.

La mancanza di voci libere e innamorate della realtà come la sua o quella di Pasolini è un vuoto che tutti sentiamo. Ma immaginare una risposta a quella domanda mette un po’ di brividi, perché il giudizio di Testori sarebbe stato di imbarazzante durezza, drammatico, difficile da digerire per chiunque.

Se provo a immaginarne i contenuti, penso che in primo luogo ci avrebbe scaraventato davanti la nuova questione giovanile. Siamo un paese che prima ha avuto paura di generare figli e ora li sta lasciando, quei pochi, senza futuro. Siamo un paese in cui intere generazioni stanno togliendo il terreno da sotto i piedi alle generazioni a venire.

C’è una questione aperta che riguarda le prospettive concrete, la possibilità di costruirsi una vita propria, di non soccombere sotto l’umiliante trafila dei lavori sottopagati, del precariato moltiplicato al quadrato. C’è una questione poi ancor più drammatica su cui Testori avrebbe battuto, di una generazione senza padri.

Una generazione che ha davanti a sé adulti in stato di protratta e infinita adolescenza, che, come ha detto il Papa nel recente libro intervista vivono “la banalità del lasciarsi semplicemente trasportare”. Trasportare dalle mode, dal salutismo mentale, dal soggettivismo; o, come avrebbe probabilmente detto Testori da una “idiota allegria” che sorvola la realtà e ne evita accuratamente il dramma.

Avrebbe scritto cose non banali sui ragazzi scesi in piazza nelle scorse settimane, non per condannarli, ma per indurli a non essere solo reattivi e supinamente istintivi come i loro padri. Per incoraggiarli a liberare la loro rabbia e soprattutto la loro inquietudine dalle trappole dell’ideologia, altra eredità avvelenata ricevuta dai padri. E li avrebbe incoraggiati a prendere sul serio il loro destino, sfidando con piglio costruttivo quella società che li ha lasciati senza futuro.

Forse avrebbe additato loro un modello per il quale nutriva un’immensa simpatia umana. È il modello di Renzo Tramaglino. Nel 1985, quando in occasione del centenario manzoniano, prese per mano noi, allora ragazzi, e s’inventò l’idea di attualizzare i personaggi dei Promessi Sposi, affidandoli ciascuno a uno scrittore, per sé scelse proprio Renzo (il volume uscì poi allegato al settimanale Il Sabato). Si fermò su quella pagina fatidica in cui Renzo, senza sapere che cosa l’aspettasse, si recava da don Abbondio per la conferma delle nozze.

 

Manzoni scrive, con notazione stupendamente sintetica, che Renzo procedeva “con lieto furore”. In quell’apparente ossimoro, scrisse Testori, c’è tutta la quintessenza della giovinezza. Come sappiamo, un complotto ordito da adulti (la prepotenza di don Rodrigo, l’acquiescenza di don Abbondio) si abbatté sulla strada di Renzo, togliendogli ogni possibilità di costruirsi un futuro. Dice Testori che il senso di tutto il romanzo consiste nel permettere a Renzo di riconnettere quell’esperienza interrotta di “lieto furore”.

 

Sappiamo che la provvidenza per mano di qualche adulto appassionato permise a Renzo di compiere la sua strada. Ma in quel suo percorso c’è un passaggio che non va dimenticato. Il giorno prima del matrimonio, i due sposi vengono convocati da colui (il signor marchese) che aveva preso il posto di don Rodrigo, il quale volle risarcirli anche in denaro per l’umiliazione e le traversie che ne erano seguite.

 

Grazie a quel denaro Renzo poté avviare la sua attività tessile nella bergamasca e costruire la sua famiglia. In che forma potrebbe avvenire oggi il risarcimento verso le migliaia di Renzo e Lucia a cui è stata tagliata la strada verso il futuro?

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