Oriente Medio, giochi grandi

I rapporti tra Usa e Israele sembrano essere entrati in crisi. Al centro della questione l’Iran e la sua minaccia nucleare

Il fatto che il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu non abbia partecipato alla conferenza di Washington per la sicurezza nucleare voluta da Barack Obama, è sembrato ai più come la nuova conferma dello stato gelido delle relazioni tra i due storici alleati (paesi più che alleati, amici).

 

Prima era venuta la questione degli insediamenti e poi la ostentata rivendicazione dell’“israelianità” di Gerusalemme, carattere che in verità pochi mettono in discussione, salvo riservare una possibilità teorica all’est della città come capitale di un teorico Stato palestinese.

Il dissidio sembra trarre origine proprio dalla questione del nucleare iraniano. Gli americani ritengono che la Repubblica islamica non possieda armi nucleari, né tanto meno la capacità di costruire vettori capaci di colpire con esse gli Stati Uniti. E altresì tendono a escludere che una tale possibilità si realizzi in futuro. Per gli analisti, Washington punta dunque principalmente sulle sanzioni economiche per dissuadere Teheran dal procedere con il suo programma nucleare, continuando nello stesso tempo a garantire la sicurezza dello stato ebraico.

Ma Gerusalemme considera invece vicina la realizzazione della prima bomba atomica iraniana, ed è ovviamente decisa a impedire questa eventualità, anche con operazioni militari. Ma questa è una prospettiva che Washington ritiene pericolosissima, e per ragioni evidenti a tutto il mondo.

Più o meno nello stesso arco di tempo, Israele ha dovuto riconoscere che un’altra storica relazione di buoni rapporti è entrata in una fase di crisi profonda, quella con la Turchia. Passo dopo passo, a cominciare dall’attacco a Gaza, il premier di Ankara Erdogan, che intanto sta regolando i conti con il contropotere interno dei militari, ha prima allentato e recentemente spezzato i tradizionali e importanti legami (manovre militari comuni, ad esempio) che duravano da oltre sessanta anni. In diplomazia non si può mai dire, ma ha fatto effetto sentire recentemente il leader islamico turco affermare che “Israele è la maggiore minaccia alla pace in Medio Oriente”.

E lo Stato ebraico? In assenza di una vera politica sulla questione palestinese (l’ultima è quella di Sharon), che potrebbe essere l’unico vero antidoto all’isolamento, prova ad aprire un nuovo gioco con la Russia, in una chiara prospettiva antiturca e con una funzione “contenitiva” verso gli Stati Uniti. Sposando in questo gli interessi russi proiettati al recupero di uno status mondiale come ai bei tempi.

Nel passaggio israelo-russo sono d’aiuto Italia e Germania, che godono di eccellenti relazioni con Mosca, al prezzo di chiudere qualche occhio sulle asprezze russe nel Caucaso. Forse non è sbagliato ipotizzare che le operazioni terroristiche che salgono da lì verso la Russia abbiano anche a che fare con un contesto geostrategico in drammatico movimento.

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In febbraio, Netanyahu è stato al Cremlino per chiedere di bloccare la vendita a Teheran dei sistemi missilistici antiaerei S-300, gli unici in grado d’impedire ai jet israeliani di colpire gli impianti iraniani. E chissà cos’altro. Dopo il capo del governo, a Mosca è arrivato il ministro della difesa Barak, e dopo di lui i massimi vertici militari israeliani.

 

Risultato? La vendita dei missili è stata bloccata insieme alle forniture di carburanti raffinati all’Iran, un paese che, pur essendo tra i principali produttori mondiali di petrolio, non ha capacità di raffinazione.

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