Dove sta la vera purezza

Riprendo - scrive Pigi Colognesi - il discorso sulla primavera che avevo iniziato l’anno scorso esattamente di questi tempi. Allora prendevo spunto da Eliot, ora da Puskin

Caro amico lettore, avrei preferito che oggi tu non avessi aperto il computer. Che diamine, è Pasquetta. Per un giorno si può godere il prolungamento della festosità di ieri dedicandosi ad una gita con famiglia e amici. Per giunta (almeno così dicono le previsioni mentre scrivo) è bel tempo e dopo un inverno così ostinatamente prolungato, un po’ di aria aperta, uno sguardo sulla natura che esplode, un tempo non compresso dalle incombenze quotidiane non farebbe male.

Ma, visto che ci siamo, riprendiamo il discorso proprio sulla primavera che avevamo iniziato l’anno scorso esattamente di questi tempi. Allora prendevo spunto da Eliot, che definiva «crudele» il mese di aprile in quanto risveglia l’indomabile desiderio umano, impedendoci di accoccolarci sotto l’invernale «terra morta» della rassegnazione.

Oggi vorrei proporre una breve poesia di Aleksandr Puškin, scritta nel 1820. Puškin è il vero «padre» della letteratura russa moderna; con la prodigalità propria del genio è lui che, di schianto, ha portato tutte le forme letterarie al massimo della potenzialità espressiva: la poesia, la novella, il teatro, il romanzo, il poema. E tutto questo nonostante una vita brevissima, iniziata nel 1799 e conclusasi tragicamente (muore in duello per difendere l’onore della moglie) a solo 38 anni.

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Le prime due strofe della sua poesia, che non ha titolo, contestano il limite degli argomenti classici di ogni «inno alla primavera», inteso come esaltazione della giovinezza spensierata. Scrive: «Non è voi che rimpiango, anni della mia primavera, / passati via nei sogni di un vano amore, / non è voi che rimpiango, o segreti delle notti, / celebrati dal flauto voluttuoso: // non è voi che rimpiango, amici sbagliati, / ghirlande di conviti e brindisi di gaia brigata, / non è voi che rimpiango, ragazze traditrici, / io che pensoso dai divertimenti fuggo». Non si pensi che Puškin avesse un temperamento tenebroso o misantropo. Tutt’altro; quell’«io pensoso» che fugge dai divertimenti non è un introverso malato di malinconia. È un uomo, sebbene solo ventunenne, leale con quello che ha vissuto e con ciò che il vissuto gli suggerisce.

Prosegue infatti: «Ma voi – voi dove siete, istanti di commozione, / di giovani speranze, di pace del cuore? / Dove il fuoco di allora e l’ispirazione delle lacrime?». La purezza della primavera e della gioventù non sta nelle sentimentali espressioni emotive dell’amore, dell’amicizia, del piacere, del divertimento. Essa è invece tutta racchiusa nell’inatteso istante in cui la persona si commuove nel profondo. Si commuove perché amore, amici, piacere e divertimento esistono e non sono sogni vani, ma aperture a «giovani speranze» dall’orizzonte incalcolabile. Solo in questa «immensità» – direbbe il coevo Leopardi – si trova la «pace nel cuore», il «fuoco» dell’iniziativa, il coraggio di trovare ispirazione persino dal dolore delle lacrime.

È pur vero che la finta saggezza degli adulti vuol ridurre a chimera anche quella commozione. Ma il genio non si arrende, come dice l’ultimo verso della poesia di Puškin: «Tornate, anni di mia primavera, tornate!».

 

 

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