Cattolici sul ramo

La candidatura di Elena Kagan alla carica di giudice della Corte Suprema ha aperto un nuovo fronte nella battaglia culturale che attualmente caratterizza la politica negli Stati Uniti

La candidatura da parte del presidente Obama di Elena Kagan alla carica di giudice della Corte Suprema ha aperto un nuovo fronte nella battaglia culturale che attualmente caratterizza la politica negli Stati Uniti.

 

Il canovaccio delle reazioni alla sua candidatura sembrerebbe già scritto e, infatti, fin da questi primi giorni si sono delineate sui media le differenti posizioni ideologiche coinvolte nella battaglia e, a meno di fatti imprevisti, non dovrebbero esservi novità sotto questo profilo da qui a luglio, quando il Senato voterà sulla candidatura.

In caso di sua approvazione, per la prima volta non vi saranno protestanti nella Corte Suprema, dove siederanno invece sei cattolici e tre ebrei, compresa la Kagan. È difficile immaginare che saranno in molti tra i senatori cattolici a essere influenzati nel voto dalla loro fede cattolica, così come i senatori ebrei dichiareranno quasi certamente che il loro giudizio non ha nulla a che fare con la loro fede.

Ma qual è esattamente la visione cattolica su come la fede influenza la cultura? La pretesa cristiana è che la fede è un metodo per conoscere la realtà. La fede e la conoscenza del reale non possono essere separate.

Questo modo di considerare il rapporto tra fede e conoscenza ha importanti conseguenze per la comprensione delle relazioni tra fede e cultura, perché la cultura in cui viviamo è costruita invece proprio sulla separazione tra fede e conoscenza della realtà.

Nel suo splendido libro Beyond Consolation (Soggetti smarriti, edito da Lindau) John Waters pone la questione in questi termini: “Le nostre culture, quindi, nello spazio pubblico in cui trascorriamo una parte così importante del nostro tempo, non sono più lo strumento che ci permette di vedere noi stessi come veramente siamo.

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La religione un tempo garantiva un accordo semantico con la totalità del reale, ma oggi è screditata, stretta in una morsa a tenaglia tra le reducciones e gli abusi perpetrati in nome della fede, da un lato, e, dall’altro, la reazione che hanno suscitato all’esterno. Uno schieramento rivendica l’esclusiva sulla redenzione, l’altro la vittoria sull’irrazionalità…

 

Senza più un linguaggio in grado di cogliere la realtà assoluta, le nostre culture diventano opprimenti in modi che non siamo nemmeno in grado di percepire. Abbiamo subito una perdita ed è la perdita di noi stessi, della nostra umanità essenziale, ma nonostante questo ci hanno convinti a considerarla una liberazione. Accogliamo l’invito a festeggiare la nostra vittoria sulla tradizione come se ignorassimo di aver segato per metà il ramo sul quale siamo seduti…abbiamo creato una cultura che nega la nostra umanità a più livelli”.

 

Mentre la cultura laicista dominante “diventa opprimente”, coloro il cui senso religioso conferma il legame del loro cuore con l’infinito sono tentati di combatterla usando la fede come un’arma, senza rendersi conto che tutto quello che la cultura laicista deve fare è aspettare fino a quando “il ramo su cui siamo seduti” cada.

 

Come dobbiamo quindi rispondere a questo circolo vizioso culturale? La risposta di monsignor Luigi Giussani è di cercare la salvezza dentro la stessa nostra umanità, attraverso un incontro che allarghi ed espanda la nostra esperienza della realtà oltre i confini della attuale guerra culturale: “Ciò che ci interessa è la realtà”, egli insiste (cfr. la lezione agli universitari di Milano del 21 giugno 1996).

 

“Se qualcosa non è reale, chi se ne cura? Cosa ce ne importa? Noi non siamo interessati a una ‘verità’ di cui non si può avere un’esperienza nel reale. Se qualcosa è vero, allora esiste; se non è vero, non esiste. Se è vero, è vero solo se viene percepito come qualcosa che c’è, non come qualcosa che penso io…”.

 

La verità e la realtà sono riconoscibili solo nel farne esperienza. Ciò che esiste diventa evidente nell’esperienza. Ma cosa vuol dire questo? Cosa significa dire che qualcosa è entrato nella nostra esperienza?

 

“Significa che io posso vederlo come se fosse questo bicchier d’acqua, come se fosse un amico, come una cosa che colgo tra le tante persone e cose, che viene da non so dove e va dove non so, ma che a un certo punto diventa evidente… La realtà compare sul nostro schermo radar come il contenuto della nostra attività e noi la afferriamo in quanto entra nella nostra esperienza. Infatti, ‘esperienza’ è il rendersi evidente della realtà.”

 

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“Diventare evidente” significa proprio questo, significa che non è qualcosa in via di formazione ora e che si realizzerà e si incontrerà solo nel futuro, o qualcosa richiamato dal passato che può spingermi e muovermi oggi. Non è così. Diventare evidente vuol dire afferrare qualcosa che si impone come già presente, qualcosa che c’è già e che si rende evidente.

 

Secondo Giussani, tre domande riassumono il nostro atteggiamento verso la cultura:

 

A. Di cosa è fatta la realtà? Risposta (cfr. Capitolo 10 del Senso Religioso): “La realtà si imprime nei nostri occhi come qualcosa che esiste già… viene da qualcosa d’altro, perché ciò che ne emerge è altro rispetto a ciò che sto guardando.”

 

B. Come possiamo conoscere qualcosa su questo “altro” che chiamiamo il “Mistero” o “Dio”? Solo se Lui si rivela, risponde Giussani. “Dio si rivela solo diventando uomo, in quanto si identifica con qualcosa che è evidente nell’esperienza.” Per questo Cristo è essenziale per conoscere la realtà. Dio (e perciò la realtà) può essere completamento conosciuto nell’uomo Gesù Cristo, nell’incontro con questo uomo che ha vinto la morte.

 

C. Ma dove è quest’uomo, Gesù Cristo, oggi? Risposta: “Questo Gesù è nella compagnia di uomini e donne che Lo riconoscono, in quella che è conosciuta come la Chiesa”. É solo attraverso la nuova esperienza della realtà resa possibile da Cristo nella Chiesa che la fede può portare frutti culturalmente. Ogni altra strada significa solo combattere fino a che il ramo cade.

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