Essere italiani, perché?

Essere italiano non può indicare una definizione vincolante e limitativa. Riflettiamoci in occasione dei 150° dell’unità d’Italia

Finalmente nelle discussioni in vista dei 150 anni dell’unità del nostro Paese qualcuno incomincia a dire che la celebre frase di Massimo d’Azeglio «Fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani» è una sciocchezza. Non solo perché, come ha scritto Giuseppe Galasso, «gli italiani esistevano da secoli» e non hanno certo aspettato un pur decisivo rivolgimento politico per cominciare ad esserci. Ma anche perché una nazione non può «farla» l’opera verticistica di una classe politica o intellettuale; il senso di appartenenza a una compagine in qualche modo unitaria non può essere prodotto forzatamente dall’alto.

 

Alla domanda sulla “italianità” (un tormentone che andrà avanti ancora per parecchi mesi) non so rispondere che in termini di dati di fatto. Sei italiano? Sì. Perché? Sono nato in Italia, da piccolo ho imparato l’italiano e non il turco, a scuola ho mandato a memoria La nebbia agli irti colli e non una lirica norvegese e quando ho dovuto votare l’ho fatto per il parlamento della Repubblica italiana.

Ma è necessario fare qualche precisazione. È un dato di fatto che io sia nato in Italia, ma lo è altrettanto che ciò sia avvenuto a Milano e non a Cuneo o Siracusa. Ciò significa, per restare nell’ambito delle esperienze linguistiche, che da piccolo parlavo coi miei parenti in milanese (e neanche quello della città, ma quello un po’ più rozzo del paese di provincia in cui abitavo) e che quando sono andato a studiare in provincia di Bergamo, ho dovuto imparare espressioni, inflessioni e vocaboli di quella zona.

C’è, dunque, un dato di fatto più vicino dell’Italia ed è il proprio contesto locale. All’interno dell’insieme più grande, la nazione, deve trovare spazio la valorizzazione di quello più piccolo e prossimo. L’idea federalista – al di là delle sue attuazioni politiche ed economiche – trova qui la sua base irrefutabile.

Ma quand’ero piccolo anche un’altra appartenenza ha definito di fatto la mia persona e la sua crescita: quella alla Chiesa cattolica. In questo caso si trattava di un’apertura universale, grande come il mondo. Essere italiani era molto più piccolo che essere cattolici. Raccogliere la carta per aiutare i poveri dell’Africa o interessarsi dei perseguitati per la fede in URSS o seguire i viaggi di Giovanni Paolo II in giro per il mondo apriva la propria dimensione a un popolo che gli italici confini non potevano rinchiudere.

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Essere italiano, allora, non può indicare una definizione vincolante e limitativa; ci sono legami e nessi fattuali che, anche senza scomodare la globalizzazione, vanno ben al di là della nazione.

 

Ricorrere al puro dato di fatto per rispondere alla domanda sulla “italianità” non è semplicistico. È anzi un criterio ricco di sviluppi: il gusto per la storia – locale, nazionale, ecclesiale – che ci ha preceduto; la passione per il genio artistico che ha fatto bella la nostra terra e per il lavoro dell’uomo che l’ha resa abitabile e feconda; il desiderio che essa non perda le sue tradizioni e però non rifiuti chi in essa voglia inserirsi armonicamente; l’impegno perché la polis che ci riguarda da vicino sia organizzata secondo giustizia. E tanto altro.

 

Questo importa; molto più della retorica dei simboli – inno o bandiera – e delle celebrazioni di un evento – quello di 150 anni fa – che è stato solo un passaggio.

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