La montagna di Carducci
Dopo che la settimana scorsa PIGI COLOGNESI ci aveva descritto il mare con gli occhi di Montale, oggi ci porta sulle montagne

Il nostro itinerario poetico negli spazi liberi della vacanza la settimana scorsa ci ha portato in riva al mare. Ed è quindi ovvio che oggi ci si trasferisca in montagna.
Per questa occasione ho scelto una poesia del vecchio Giosuè Carducci. Un poeta onnipresente nelle antologie scolastiche fino a qualche decennio fa, il vate del risorgimento italiano, il cantore della classicità perduta e l’accusatore del cristianesimo ritenuto colpevole di quella perdita, il primo premio Nobel italiano.
Ora Carducci sembra un po’ dimenticato. Forse perché la sua poesia non è di facile comprensione o più probabilmente perché la sua è una proposta impegnativa; e a essa si preferisce ora l’impressionismo superficiale e minimalista.
Carducci ha spesso preso le mosse per la sua poesia da luoghi visitati. E normalmente quei luoghi diventano sotto la sua penna lo spunto per riflessioni più ampie; si tratti della meditazione sulla sua infanzia dialogando coi cipressi Davanti San Guido, della storia dell’Italia Alle fonti del Clitumno, o della natura del cristianesimo e dell’amore In una chiesa gotica. Riflessioni ora malinconiche ora acide, riflessioni battagliere o sconsolate, a volte verbose.
Di fronte allo spettacolo di un Mezzogiorno alpino – sedicesima composizione della raccolta Rime e ritmi, scritta nell’agosto 1895 -, Carducci sembra invece bloccare l’onda travolgente delle parole.
Lo spettacolo che si offre ai suoi occhi è così imponente che non si può e non si deve aggiungerci nulla, nessun commento, nessuna riflessione sulla storia o sulla cronaca, nessuna morale da trarre e nessun insegnamento da impartire.
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Solo il grande silenzio della natura «regna sereno»; solo l’acqua di un ruscello fluente dalla roccia ha diritto di cantare come una cetra.
Per un momento anche il grande vate ha ritrovato lo sguardo innocente e stupito del bambino e ha sgomberato la sua pagina da tante cianfrusaglie per lasciare spazio a qualcosa di misteriosamente, imponentemente e semplicemente altro. Come i pini attraversati dal sole.
Nel gran cerchio de l’alpi, su ‘l granito
Squallido e scialbo, su’ ghiacciai candenti,
Regna sereno intenso ed infinito
Nel suo grande silenzio il mezzodì.
Pini ed abeti senza aura di venti
Si drizzano nel sol che gli penètra,
Sola garrisce in picciol suon di cetra
L’acqua che tenue tra i sassi fluì.
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