La dea bendata

La fortuna era, nel mondo classico, la dea bendata che distribuisce a casaccio (e infatti è strettamente imparentata con l’idea di caso) riuscite e successi

Il ragionier Ugo Fantozzi è stato uno dei protagonisti dell’annuale Festival della filosofia svoltosi tra Modena, Carpi e Sassuolo lo scorso fine settimana. Il motivo è chiaro: l’impiegato perseguitato dalla iella è capace di incarnare nella nostra immaginazione, ben più dei togati accademici, il tema del festival, cioè la fortuna. O, piuttosto, il suo contrario.

 

La fortuna era, nel mondo classico, la dea bendata che distribuisce a casaccio (e infatti è strettamente imparentata con l’idea di caso) riuscite e successi. E, più spesso, li toglie; lasciando l’uomo nel più totale sconcerto di chi non capisce come mai e soprattutto perché possa essere successo proprio a lui quel dolore, quella sconfitta, quella perdita.

Ragionando di fortuna non poteva mancare nel Festival una riflessione su Machiavelli. Il notaio fiorentino ha infatti posto il tema con lucida chiarezza da uomo moderno; le vicende della storia personale e dei popoli sono governate da una forza incomprensibile – la fortuna, appunto – contro la quale non ci si può opporre. O meglio «perché il nostro libero arbitrio non sia spento, iudico poter essere vero che la fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre, ma che lei ne lasci governare l’altra metà, o presso, a noi».

Alla cieca fatalità l’uomo moderno oppone, dunque, la virtù, la forza della ragione e il coraggio della volontà che le possono resistere. Ma se leggiamo bene questo passaggio del Principe notiamo che c’è un presupposto chiaro: l’obiettivo dell’azione umana, e quindi del suo opporsi alla cecità della sorte, è il successo, la riuscita. Machiavelli, dato il soggetto del suo trattato, ha in mente la riuscita politica, ma lo stesso si potrebbe dire in tutti gli ambiti interessanti della vita umana: affari, amore, divertimento, amicizia, carriera.

Anche Dante ha subito un grave rovescio di fortuna quando è stato esiliato dalla sua amata Firenze; per cui ha riflettuto a fondo sul tema. Ed è arrivato a una conclusione che mostra l’abisso che separa la coscienza dell’uomo cristiano da quella del “moderno”. La sua conclusione è che la perdita di quello che si aspettava come riuscita può essere un bene per la persona più grande di quello che avrebbe ottenuto se le cose fossero andate come avrebbe voluto.

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È una posizione vertiginosa e affascinante. E per noi difficilmente comprensibile. Infatti, quando sono andato sul sito del Festival mi sono messo a leggere le «frasi famose» di celebri pensatori sulla fortuna. Dopo una sequenza un po’ triste di Petrarca, Seneca, Montaigne eccetera, arriva Dante. Ma se ne riporta una frase interpretabile fatalisticamente: «Che giova ne le fata dar di cozzo?» cioè opporsi alla fortuna.

 

Come se il cristianesimo, rappresentato nel suo sommo poeta, fosse una triste rassegnazione. In realtà Dante affronta ampiamente il tema della fortuna due canti prima di quello citato, nel settimo dell’Inferno. Lì spiega che la fortuna è «ministra di Dio». Certamente le sue azioni sfuggono alla nostra analisi, al nostro «saver», e perciò molti la biasimano perché toglie qualcosa di caro (come a Dante la sua patria). Invece le bisognerebbe «dar lode».

 

Perché? Perché proprio quando toglie i «ben vani», cioè passeggeri, rimette la persona di fronte a tutta la sua statura, che ha bisogno non della riuscita ma della felicità.

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