Il dolore di Rebora

In questo periodo cresce la diffusione dell’influenza. Un’occasione per ricordarsi che il nostro corpo non è una macchina e che può ammalarsi

L’epidemia di influenza è al suo acme. Al di là delle notizie sui giornali, ce ne rendiamo ben conto nella nostra vita quotidiana. C’è la riunione che salta perché uno dei partecipanti telefona con voce soffocata dicendo di essere costretto a letto; c’è il collega con cui era programmato un importante lavoro e che invece è dovuto restare a casa; c’è la donna delle pulizie che va su e giù dalle scale con continui e irrefrenabili colpi di tosse.

Io, per ora, ho preso solo un forte raffreddore. Sufficiente però nei suoi effetti – decine e decine di fazzoletti di carta consumati, il naso arrossato e dolorante, caldo improvviso seguito da brividi di freddo, difficoltà di concentrazione – a rammentarmi che il nostro corpo non è una macchina che funziona sempre alla perfezione, che può incepparsi, ammalarsi.

Mi sono tornati alla mente alcuni versi dei Canti dell’infermità di Clemente Rebora e sono andato a rileggere questa breve raccolta di poesie. Certamente non si può paragonare la lunga stagione di sofferenze che ha caratterizzato l’ultima parte della vita di Rebora, e che si sarebbe conclusa con la sua morte nel 1957, col piccolo disagio provocato da un raffreddore. Eppure, sebbene profondamente diversa in quantità, la qualità di quanto Rebora, allora sacerdote rosminiano inchiodato su un letto a Stresa, ha scritto è pertinente con ogni tipo di esperienza di dolore fisico.

«Sono qui infermo», scrive nel novembre del 1956; tutto il peso del ritmo del verso cade su quel «qui», che circostanzia concretamente la sofferenza e sembra bloccare ogni cosa nel suo doloroso orizzonte. «Inerte e informe giaccio con me stesso» scriveva l’anno prima; inerte perché il corpo non risponde come si vorrebbe e informe perché i pensieri stessi si confondono. E infatti in questa stessa poesia Rebora parla si sé come di una «salma».

La descrizione delle angustie che il malato è costretto ad attraversare è ricca di dettagli, che il verso reboriano, aspro e sintetico, trasforma in crudi colpi di luce, quasi rasoiate. «Per lo schianto, basta un niente». «E il corpo mi rifiuta ogni servizio». «Tutto ozio di tempo, orribil peso». Fino a giungere alla potentissima immagine contenuta in Notturno, scritto la vigilia di Natale del 1955: «Chiodo al muro, / in fisiche miserie io son confitto».

 

I Canti dell’infermità non sono però solo la constatazione e l’analisi di un fenomeno; sono anche la ricerca del suo senso. Come il pioppo dell’omonima poesia ha il tronco che «s’inabissa ov’è più vero», così «l’ansia del pensiero» di Rebora, malato e incapace di svolgere qualsiasi attività, «vibra», «spasima» nel desiderio di scoprire il significato di tutto questo soffrire.

 

È lo stesso desiderio che gli aveva fatto scrivere, ancora ateo, nel 1920: «Non aspetto nessuno», eppure «verrà d’improvviso», «verrà come ristoro», «verrà, forse già viene / il suo bisbiglio». È il desiderio che sul letto dell’infermità diventa questa stupenda preghiera: «L’umiliante decompormi vivo / sia l’indizio del Tuo vitale arrivo».

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