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Il Teatro alla Scala apre la stagione, il prossimo 7 dicembre, con il Don Giovanni di Mozart. Prendendo spunto da quest’opera comincia la riflessione di PIGI COLOGNESI

Il Teatro alla Scala apre la stagione, il prossimo 7 dicembre, con il Don Giovanni di Mozart. Questo personaggio – che ha basi storiche ed è stato più volte rivisitato nella storia della letteratura – è diventato ormai un archetipo, la personificazione di una particolare sfaccettatura dell’esperienza umana di tutti. Infatti, ognuno di noi sa bene cosa significhi essere o fare il dongiovanni. In realtà, siamo di fronte a una figura molto più complessa del superficiale cascamorto. Per dirlo sinteticamente, potremmo affermare che don Giovanni è «l’uomo del desiderio» e in particolare di quello che si esercita nel campo dei rapporti affettivi.

Nell’opera di Mozart il protagonista è il classico libertino, colui che sente il desiderio come un vuoto da riempire immediatamente e che lo fa senza curarsi della storia e della sensibilità delle donne che vuole e senza fermarsi neppure davanti all’omicidio per raggiungere i propri scopi. Alla fine, avendo rifiutato ogni pentimento, viene punito da una delle sue vittime, il Commendatore, appositamente tornato dall’aldilà. La morale sembra chiara: l’istituto familiare va difeso da ogni perturbazione prodotta da chi non sa controllare i propri desideri.

Eppure, c’è qualcosa di grandiosamente attraente nella figura del don Giovanni mozartiano. E infatti la sua ansia di conquiste al di fuori di ogni vincolo socialmente determinato e persino la sua cocciuta resistenza a cedere agli inviti a conversione sono state interpretate come un inno alla libera espressione del desiderio. A oltre due secoli di distanza possiamo tranquillamente affermare che simile scatenamento è sostanzialmente realizzato. Ogni desiderio è così libero di esprimersi e realizzarsi che si è arrivati a parlare di «dittatura» del desiderio stesso. Con risultati inquietanti.

Basti pensare che quello che ai tempi di Mozart era libertinismo galante ora si è trasformato nella sexual addiction da cui sembra colpito, secondo una recente indagine, il 5% dei cittadini statunitensi. Il desiderio sessuale lasciato libero di esprimersi senza vincoli di nessun tipo ha prodotto il paradossale risultato di diventare una nuova schiavitù, una dipendenza come quella che si può contrarre nei confronti delle droghe, del cibo, del gioco d’azzardo.

Si deve, dunque, tornare a porre dei limiti? Non credo che sia né possibile, né efficace. Il punto è ripensare a cosa sia veramente il desiderio. Se si tratta di un puro impulso a una soddisfazione intravista, di un vuoto da riempire non appena possibile, allora non c’è niente da fare: quella soddisfazione non può che essere cercata tutte le volte che si può; ma questo porta, appunto, a essere schiavi del proprio desiderio. In realtà, esso non è un fenomeno accidentale che ci si possa illudere di colmare con un altrettanto accidentale godimento.

Il desiderio particolare fa scoprire alla persona di «essere» desiderio, cioè costituita da una mancanza e da una contemporanea tensione al compimento; non cerca ciò che colma la specifica mancanza, che si ripresenterà, ma qualcosa che soddisfi la totalità di sé. Insomma, il desiderio è inesauribile e della stessa dimensione deve essere la risposta. Proprio per questo non è una maledizione, bensì la molla dell’inesausto cammino umano. Per realizzare il quale è perfettamente ragionevole accettare la rinuncia a una soddisfazione immediata.

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