Grossman vs. Saviano

Roberto Saviano pubblica le liste dei dieci motivi per cui vale la pena vivere. Nelle quali sembra mancare un orizzonte infinito, come invece c’è in un romanzo di Vasilij Grossman

Roberto Saviano ha chiesto ai suoi lettori di elencare «dieci motivi per cui vale la pena vivere». L’obiettivo è quello di fare una fotografia del nostro Paese in presa diretta. Lo scrittore sta ora pubblicando le liste che gli sembrano più significative, accompagnandole con qualche osservazione.

La cosa di gran lunga più “votata” è l’amore; che si tratti di quello per la propria donna o il proprio uomo, di quello per i figli, i genitori e anche di quella speciale forma di affetto che è l’amicizia. Subito dopo vengono i piccoli e grandi piaceri che danno un po’ di gusto all’esistenza: il cibo preferito (lo stesso Saviano, nella sua lista, mette al primo posto la mozzarella di bufala aversana), la canzone carica di ricordi, un paesaggio amato.

Quello che mi colpisce in questi elenchi è la mancanza di proporzione tra la domanda posta – qual è la ragione per cui vale la pena vivere – e le risposte date. Detto in altri termini, impressiona la mancanza ormai tranquillamente accettata della dimensione del permanente, del duraturo, dell’eterno. È sostanzialmente dato per scontato, anche se sottaciuto, che l’orizzonte della vita, per cui individuare delle ragioni, è quello esclusivamente temporale, finito, determinato. Come se ci fossimo rassegnati al fatto che, nell’assenza dell’infinito, l’unica cosa da cercare è la soddisfazione del momento passeggero. La caducità delle cose elencate non sembra più porre domande. Ma se ciò per cui vale la pena vivere è qualcosa che finisce, è davvero una ragione adeguata?

Nel grande romanzo Vita e destino di Vasilij Grossman c’è un capitolo spettacolare. È la lettera che la madre di uno dei personaggi principali scrive a suo figlio dal ghetto in cui, come ebrea, è stata rinchiusa. Si è resa conto che i nazisti hanno ormai deciso di applicare la soluzione finale; molti ebrei vengono quotidianamente caricati su carri, portati fuori dal ghetto, senza più farvi ritorno: sono fucilati ai bordi di grandi fosse comuni.

Scrivendo al figlio, Anna Semënovna Štrum, racconta dei suoi ultimi giorni di vita. L’incombenza della catastrofe finale non ha distrutto, anzi ha accresciuto, la sua voglia di vivere. Continua persino a dare lezioni di francese a un piccolo ebreo di cui conosce il tragico destino; gli dà i compiti per il giorno successivo, anche se quel giorno potrebbe essere quello in cui lui – o lei – verrà caricato sul carro e avviato ai bordi della fossa. Poi Anna cerca di spiegare al figlio Viktor ciò che la sua vita è stata, gli chiede perdono per gli errori commessi, gli indica dove potrà trovare il suo corpo.

Non sa come concludere la lettera; chi può trovare parole adeguate nel momento in cui ci si deve definitivamente congedare dalla persona più amata? Poi scrive così: «Caro Viktor, queste sono le ultime parole dell’ultima lettera di tua madre: Vivi, vivi, vivi per sempre». Non semplicemente «Vivi», ma «Vivi per sempre». In questo «per sempre» c’è tutta la lealtà del pur ateo Grossman rispetto alla domanda sulle «ragioni per cui vale la pena vivere», c’è la consapevolezza che solo la prospettiva dell’eterno è proporzionata alla acutezza della nostra esigenza. Gabriel Marcel scriveva infatti: «Ama chi dice all’altro: tu non puoi morire».

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