Italia, tra giudici e politica

Le sentenze su Pomigliano/Mirafiori e sull'applicazione della Bossi-Fini stanno scoprendo il nervo dei rapporti tra la politica italiana e la giustizia europea. Ne parla LORENZA VIOLINI

Nelle ultime settimane alcune sentenze hanno attratto l’attenzione dei media: quelle italiane che stanno mettendo a repentaglio gli accordi di Pomigliano/Mirafiori e la sentenza europea sulla direttiva rimpatri che vanifica le sanzioni previste dalla legge Bossi Fini per la permanenza sul territorio nazionale di immigrati cui e’ stato intimato l’allontanamento.

Minimo comune denominatore contestato a questi interventi dei giudici è l’esercizio extra  ordinem dei loro poteri, in un caso a scapito delle nuove tendenze in materia di relazioni industriali, nel secondo contro il corretto svolgimento del rapporto fra potere legislativo nazionale, democraticamente legittimato, e potere giudiziario europeo.

Chiusa la questione? Se vogliamo semplificare al massimo, potremmo dire di sì. Vale forse invece la pena di fare qualche approfondimento.

Sul primo caso: in un dibattito organizzato alla Statale dall’associazione studentesca Lucerna  Iuris l’on. Cazzola e l’avvocato Pozzoli hanno messo in luce il momento di crisi che sta attraversando la regolazione delle relazioni industriali nel nostro Paese e le molte incertezze normative del settore, incertezze che hanno radici profonde e risalenti, dalla inattuazione delle norme costituzionali in tema di accordi sindacali alla labilità della fonte referendaria per garantire l’applicazione erga omnes dei contratti collettivi. E, ancora, sulla difficoltà a individuare l’efficacia di modifiche a fonti contrattate per soggetti non sottoscrittori i quali avrebbero invece sottoscritto in passato contratti ancora vigenti. Certo, se i giudici del lavoro si assumono il compito non di una giustizia del caso singolo ma di interventi di sistema rischiano davvero di strafare. Stigmatizzarli, come pure forse è necessario, non può essere il pretesto per sottrarsi alla fatica della ricerca. Il lavoro impostato dagli studenti è esempio di questo inizio di serietà, che entra in merito ai nodi problematici dei casi per cercare soluzioni più coerenti, come fanno del resto i migliori avvocati e i giudici più equilibrati.

Analogamente, sulla direttiva rimpatri: molto facile fermarsi a censurare (e/o osannare) l’interferenza dell’Europa sulle scelte nazionali. Più complesso risulta andare oltre. Per gli affezionati del mestiere, c’è un problema tecnico/giuridico relativo alla definizione della diretta applicabilità dei principi di diritto internazionale ed europeo, che fa capo alla mancata definizione dei poteri europei nella sede appropriata, quella costituzionale. Vi è poi una questione interna al nostro Paese, che non ha dato attuazione alla direttiva europea e non ha quindi fatto uso del margine di discrezionalità che compete agli Stati membri creando incertezza su un tema così bruciante come quello dell’immigrazione. Il che di nuovo porta quasi inevitabilmente ad affidare ai giudici scelte che invece dovrebbero essere fatte in sede politica.

Si potrebbe, almeno ad interim, affermare quanto segue: il giurista non si può limitare a dare giudizi generici, applicando schemi noti. Egli cerca sempre di cogliere nella problematicità del caso una via anche critica per comporre il conflitto, sapendo che di conflitto si tratta, che si tratta di interessi contrapposti cui dare una soluzione equilibrata, bilanciata e ragionevole; il tutto per fare un passo avanti, nella consapevolezza della precarietà della giustizia umana che tuttavia non manca di una sua pur fragile nobiltà . Non un miracolo  (in questo caso uno schema, un giudizio dato a priori e bon à tout faire)  ma un cammino…. un lavoro di ricerca faticoso, pieno di incertezze e di dubbi da dirimere. Forse anche per questo, talvolta, i giuristi sono parecchio noiosi, pedanti e non sempre simpatici al grande pubblico.

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