Palestina, quale Stato?

Fatah e Hamas, i due principali partiti palestinesi, hanno firmato un accordo di pace per dar vita ad uno Stato palestinese unificato. Il punto di ROBERTO FONTOLAN

All’inizio di maggio nella fatidica città del Cairo, cuore del destino del Medio Oriente, i leader di Fatah e Hamas, i due principali partiti palestinesi, hanno firmato un accordo di pace per dar vita ad uno Stato palestinese unificato. Qualcosa di simile era già avvenuto nel 2007 alla Mecca, ma dopo poche settimane scoppiò la guerra intestina che portò Hamas a controllare da sola l’intera Striscia di Gaza, mentre a Fatah restò il governo della Cisgiordania tramite l’Autorità Palestinese. Un simile accordo è certamente frutto di un iter complesso e delicato, e si è aggiunto alla già complessa e delicata situazione della regione, ma la notizia della sua conclusione, per lo più inaspettata, ha creato interrogativi e sconcerto.
I due partiti sono molto diversi tra loro e fino a qualche giorno fa in aperto contrasto. Hamas è nella black list americana, Fatah è più moderato e secolarizzato, e da tempo figura come unico interlocutore politico accettato dall’Occidente e da Israele. Nell’accordo è previsto anche l’ingresso di Hamas nell’Olp, la storica organizzazione dei palestinesi, creata nel 1964 e per molti anni diretta da Yasser Arafat. Interessante notare come il patronato dell’accordo sia dell’Egitto, e in particolare di Nabil Araby, il nuovo ministro degli Esteri del dopo rivoluzione. Evidentemente chi sta reggendo la politica egiziana non intende cedere terreno e capacità di influenza. Araby si è incaricato anche della riapertura del confine con Gaza, chiuso da Mubarak nel 2006.
Grandi esclusi sono stati invece i paesi occidentali, e in particolare gli Stati Uniti, che pure aprono periodicamente processi di pace tra Israele e l’Autorità Palestinese, peraltro senza mai aver raggiunto risultati apprezzabili. Si sussurra anzi che il primo ministro dell’Autorità, Salam Fayyad, molto amato da Washington, sia stato tenuto all’oscuro fino all’ultimo momento. Fayyad gestisce i milioni di dollari di aiuti che l’America manda ogni anno in Cisgiordania, soldi che potrebbero essere messi a serio rischio da un accordo che ha visto gli Usa ridotti a spettatori.
I protagonisti diretti sono stati il leader di Hamas Kalhed Meshal (in esilio a Damasco) e il presidente dell’Autorità Mahmud Abbas. Per certi versi il patto è frutto delle rispettive debolezze. Meshal si è trovato in difficoltà con la Siria, sponsor di Hamas insieme all’Iran, che pretendeva un atto di obbedienza che è stato rifiutato (avrebbe poco senso inchinarsi al rais di Damasco in questo momento). E d’altro canto Abbas ha sofferto la cacciata del suo protettore Mubarak e l’incertezza della politica mediorientale della Casa Bianca in questa fase (per non citare l’eterno ritorno del nulla di fatto con Israele).

Molti punti del trattato devono essere ancora definiti, ma sicuramente un governo “tecnico” guiderà le due regioni palestinesi alle elezioni unificate e libere (che si dovrebbero tenere in autunno). Si procederà poi a incanalare le milizie di Hamas nell’esercito dell’Autorità Palestinese e all’allargamento dell’Olp. Dal palco del Cairo Meshal ha indicato così lo scopo comune: “Uno Stato palestinese con piena sovranità sui confini del 1967 con Gerusalemme come capitale, nessun insediamento, e non rinunceremo al diritto di ritornare”. In verità è proprio su questi ultimi due punti che sì è fermato ogni dialogo con Israele, mentre sui confini, “più o meno” sulle linee del 1967, e su qualche lembo dell’area di Gerusalemme eleggibile a capitale c’è sempre stata disponibilità a trattare.
Insediamenti e diritto al ritorno (dei profughi palestinesi delle varie guerre a partire dal ’48 e tuttora sistemati nei campi e nelle bidonville dei Paesi arabi) sono invece argomenti tabù per gli israeliani. E infatti il primo ministro Netanyahu ha subito bocciato l’accordo (e del resto Israele ha sempre giocato a dividere il fronte palestinese). La riappacificazione di Fatah con Hamas lo ha mandato su tutte le furie e cerca di convincere l’Occidente a condannarla. Lo aiuta di certo la dichiarazione che ha rilasciato il premier di Gaza Haniyeh sulla morte di Osama, definito “soldato della guerra santa musulmana”, protestando per l’ “assassinio” da parte degli Usa i quali “continuano a versare sangue arabo”.
In questi giorni le due parti stanno preparando la visita di Abbas a Gaza, da suggellare con il rilascio dei rispettivi prigionieri politici; una faccenda che presenta risvolti curiosi poiché finora per ambedue i governi chi è detenuto lo è solo in quanto criminale comune. Ed è questo un altro motivo di rabbia per Israele, che vedrà liberi militanti di Hamas che considera terroristi. A settembre verrà presentata una mozione all’Onu per il riconoscimento del nuovo Stato e in quel momento si capirà meglio la portata dell’accordo (se terrà nei prossimi mesi, beninteso). Intanto nelle capitali occidentali si nasconde la mancanza di idee chiare con il rovello: sarà Fatah a moderare Hamas o Hamas a radicalizzare Fatah?

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