Tempo da lupi

In questi giorni di gelo, si sono visti anche dei lupi avvicinarsi ai centri abitati. Uno spunto di riflessione per PIGI COLOGNESI che ricorda anche il famoso episodio di San Francesco

Italia nella morsa del freddo: morti, disagi, trasporti in tilt, preoccupazione per le scorte di carburante da riscaldamento, polemiche. Un’ondata gelida così non si registrava da decenni. In un paese dell’Abruzzo si sono persino visti dei lupi. Il lupo è l’animale cattivo per antonomasia, quello che spaventa i bambini nelle fiabe.

C’è una ragione storica: per secoli gli uomini e i lupi si sono contesi il predominio sul territorio e le connesse risorse alimentari; ora ci sembra ovvio che abbiamo vinto noi, ma fino all’ultimo Medioevo il risultato della lotta non era affatto scontato. E così il selvatico predatore è diventato l’emblema stesso della ferocia. Essa esplode in tutta la sua violenza proprio quando il freddo diminuisce la possibilità di caccia nei boschi e la fame spinge il lupo a cercare cibo tra gli umani.

Tutto questo ha anche un chiaro valore simbolico. Il gelo è ciò che si oppone alla vita; essa è movimento, rigenerazione, fioritura continua; il freddo invece immobilizza, impedisce la crescita, inaridisce. Tanto che si è spesso rappresentata la fine del nostro mondo come un progressivo avanzare di terreno gelato. Fino a che, come ha immaginato Carducci, l’ultima coppia sopravvissuta di uomini contempla dall’equatore tramontare per l’ultima volta un pallido sole sulla terra diventata «immane ghiaccia».

La prospettiva di un inesorabile avanzamento del gelo ci terrorizza. E fa emergere il nostro lato ferino, il lupo che è in noi. Di fronte alla minaccia si diventa cattivi, saltano tutte le regole di rapporti pacifici, mors tua vita mea. Cormac McCarthy ne La strada ha lasciato pagine indimenticabili di un’umanità trasformata in bestialità, di convivenza ridotta alle feroci leggi del branco, esattamente come quelle dei lupi.

Ma nella nostra memoria c’è anche un altro lupo, non meno feroce e aggressivo e tuttavia guardato e trattato in maniera del tutto nuova. È quello di Gubbio di cui narrano i Fioretti di san Francesco. Anche allora un’eccezionale ondata di freddo aveva ridotto alla fame la bestia «terribile e feroce» che, lasciati i boschi in cui usualmente viveva, si spingeva fino in città dove «non solamente divorava gli animali, ma eziando gli uomini». Tutta la popolazione di Gubbio è terrorizzata dal lupo, dall’esplodere di tanta incontrollabile ferocia, al punto che non esce più dalle mura per paura di doverci fare i conti.

San Francesco, invece, non ha paura della ferinità; anzi le va incontro, l’affronta senza esitazioni. Innanzitutto la giudica per quello che è: «Frate lupo, tu fai molti danni in queste parti; hai avuto l’ardire d’uccidere uomini fatti alla immagine di Dio; per la qual cosa tu sei degno delle forche». Ma la violenza che è in noi non si può impiccare: si entrerebbe nel suo stesso gioco; deve essere trasformata. Infatti il santo, volendo «far la pace» tra gli eugubini e il lupo, gli propone un patto: lui non farà loro del male ed essi si impegnano a dargli cibo.

Il lupo accetta con un cenno del muso e, addirittura, conferma il patto mettendo la zampa destra nella mano del santo. «E poi il detto lupo vivette due anni in Agobbio, ed entravasi dimesticamente per le case, sanza far male a persona e sanza esserne fatto a lui. Finalmente dopo due anni frate lupo si morì di vecchiaia». E incredibilmente gli abitanti di Gubbio furono tristi per la sua morte; furono tristi perché da vivo ricordava loro la «virtù e santità di santo Francesco», che cioè la bestialità non è l’ultima parola su di noi: la si può guardare e ammansire.

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