Lavoro, gli “equivoci” della riforma

Ieri è stata definitivamente approvata dalla Camera dei Deputati la riforma del mercato del lavoro. CESARE POZZOLI ne segnala alcuni aspetti controversi

Ieri è stata definitivamente approvata dalla Camera dei Deputati, con il voto di fiducia, la riforma del mercato del lavoro, che entrerà in vigore nelle prossime settimane, salve diverse decorrenze previste per particolari disposizioni. Lo “storico” articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, che tanto ha fatto discutere negli ultimi anni, viene modificato e… “fatto in quattro”. Infatti la nuova norma, rubricata “Tutela del lavoratore in caso di licenziamento illegittimo” e non più “Reintegrazione nel posto di lavoro”, prevede quattro differenti tutele del lavoratore.

Per dare un’idea della complessità della nuova disciplina basterà rilevare che la “vecchia” tutela dell’articolo 18, vigente dal 1970, viene mantenuta soltanto in casi particolari: licenziamento discriminatorio, licenziamento intimato alla lavoratrice in concomitanza con il matrimonio o con il periodo di maternità, licenziamento determinato dalla domanda di congedo parentale, recesso per motivo illecito o comunicato solo oralmente. In questi casi la tradizionale tutela reintegratoria si applicherà a tutti i datori di lavoro, indipendentemente dal numero di dipendenti occupati e anche a favore dei dirigenti; sarà poi dovuto il risarcimento del danno pari all’ultima retribuzione maturata dal giorno del licenziamento sino a quello della reintegrazione e comunque non inferiore a 5 mensilità con possibilità per il lavoratore di “optare” per un’indennità sostitutiva della reintegrazione pari a 15 mensilità (in aggiunta al risarcimento del danno).

Le ulteriori “tutele” operano invece soltanto per i lavoratori, eccetto i dirigenti, occupati nelle imprese con oltre 15 dipendenti nello stesso Comune o con oltre 60 dipendenti nell’intero territorio nazionale.

Una prima “tutela” si applica ai casi di licenziamento per motivi disciplinari “annullati” per insussistenza del fatto contestato ovvero perché il fatto rientra tra le condotte punibili con la sanzione conservativa secondo le previsioni dei contratti collettivi, ai licenziamenti intimati per inidoneità fisica o psichica del lavoratore “annullati” per difetto di giustificazione, ai licenziamenti intimati in violazione della disciplina in materia di infortunio, malattia, gravidanza e puerperio e da ultimo nei casi di licenziamenti economici ove venga accertata la “manifesta insussistenza” del fatto posto a base del recesso.

In queste ipotesi è prevista la reintegrazione nel posto di lavoro e il risarcimento del danno pari alle retribuzioni arretrate. È stato tuttavia introdotto un tetto massimo al risarcimento pari a 12 mensilità, finalizzato a non far gravare sul datore di lavoro l’onere connesso alla durata del processo, che attualmente può arrivare sino a dieci anni prima di approdare a una sentenza definitiva di Cassazione. È ben vero che la “riforma Fornero” prevede un particolare “rito speciale” che, ove applicato effettivamente, dovrebbe condurre a una sentenza in Cassazione nell’arco di un biennio: ma è verosimile ritenere che tale procedura non sarà puntualmente applicata nella prassi, come già accade peraltro per il vigente “processo del lavoro” introdotto fin dal 1973.

La nuova normativa prevede altresì che dal risarcimento del danno debba essere dedotto quanto percepito dal lavoratore per l’eventuale svolgimento medio tempore di altre attività lavorative e quanto lo stesso avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione.

In tutti gli altri casi di licenziamento ritenuto illegittimo è prevista una mera indennità risarcitoria “onnicomprensiva” determinata tra un minimo di 12 e un massimo di 24 mensilitàdell’ultima retribuzione, in relazione all’anzianità del lavoratore e tenuto conto del numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell’impresa, del comportamento e delle condizioni delle parti. L’indennità è poi ridotta tra un minimo di 6 e un massimo di 12 mensilità nelle ulteriori ipotesi di licenziamento ritenuto inefficace per mancanza dell’indicazione specifica dei motivi, per violazione della procedura prevista dall’articolo 7 dello Statuto dei lavoratori in materia di sanzioni disciplinari o per omissione del tentativo preventivo di conciliazione reso obbligatorio dalla riforma nei casi di licenziamento per motivi economici.

Ovviamente è da ritenere che ove un licenziamento formalmente illegittimo fosse determinato da una ragione discriminatoria o comunque da un vizio per il quale è prevista una migliore “tutela” per il lavoratore, si applicherà quest’ultima.

Resta invece immutata la “tutela obbligatoria”, contenuta nell’articolo 8 della legge n. 604 del 1966, che prevede per i licenziamenti dichiarati illegittimi disposti dalle aziende con meno di 16 dipendenti il solo risarcimento del danno compreso fra un minimo di 2,5 ed un massimo di 6 mensilità dell’ultima retribuzione.

Se appare eccessivamente severo lo schietto commento del nuovo Presidente di Confindustria, secondo il quale “questa riforma è una vera boiata”, è indubbio che la nuova normativa presenta numerose aporie e problematiche applicative, come è stato osservato da tutte le parti sociali e da autorevoli giuristi. Per restare al solo tema dei licenziamenti, su cui si sono concentrate le maggiori attenzioni dell’opinione pubblica negli ultimi mesi, basterà rilevare che la nuova disciplina presenta vari profili di equivocità che vanno nella direzione opposta a quella semplificazione e chiarezza auspicate dall’Europa e da tutte le parti politiche e sociali di tutti gli schieramenti.

Ci limitiamo a qualche rilievo: la nuova normativa prevede la reintegrazione in caso di licenziamento disciplinare illegittimo “per insussistenza del fatto contestato ovvero perché il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi” e la mera tutela economica negli altri casi. Il che potrebbe persino portare al paradosso secondo cui, ove un lavoratore fosse licenziato “perché si è messo le dita nel naso” e tale condotta fosse provata, non sarà dovuta la reintegrazione ma la sola tutela economica laddove il CCNL non ricomprenda (come di norma non ricomprende) tale ipotesi tra le “condotte punibili con una sanzione conservativa”, ovvero quando il datore di lavoro non applicasse alcun CCNL (come ben può accadere).

E ancora, quando si prevede la reintegrazione, anziché la mera tutela economica, nel caso di licenziamento economico per “manifesta insussistenza del fatto” giustificativo, risulta difficile comprendere come un fatto possa essere “manifestamente insussistente”: al di là dei bizantinismi, qualunque fatto della realtà, per definizione, o sussiste o non sussiste.

Quanto poi al nuovo processo del lavoro, viene di fatto introdotto un complesso meccanismo con quattro gradi di giudizio, neppure previsti per i casi di omicidio puniti con l’ergastolo, oltre a un ulteriore tentativo obbligatorio preventivo di conciliazione per i licenziamenti “economici”. È dunque facilmente immaginabile come la stessa fattispecie potrà essere diversamente valutata da quattro giudici diversi, ciascuno dei quali potrà “decidere” non solo se il medesimo licenziamento è illegittimo o meno, ma anche quale tipo di tutela applicare (reintegratoria o indennitaria). E si potrebbe continuare.

Come appare evidente, i problemi applicativi sono numerosi e rivelano un approccio governativo piuttosto astratto e lontano dai problemi reali del lavoro, solo in parte corretto in sede parlamentare. L’auspicio è che, come ha già promesso il Presidente Monti, si possa nei prossimi mesi con un rapido iter parlamentare porre rimedio a talune storture della riforma. Anche – ma non solo – in materia di licenziamenti.

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