Il tempio di Bach

La musica di Bach ha una specifica caratteristica: è una immensa architettura, un tempio nel quale trovano ordinata collocazione i particolari della vita e della realtà

Poche cose aiutano quanto la musica a familiarizzare con l’infinito, tema posto al centro del prossimo Meeting di Rimini. La musica ha un linguaggio più universale delle parole, che tendono sempre ad una definizione e che se espresse in una lingua sconosciuta non ci parlano più (salvo, appunto, per il loro aspetto musicale). La musica ubbidisce al tempo e chiede tempo nel momento stesso in cui lo dilata in un’aspettativa o lo accorcia in un’emozione improvvisa. La musica spalanca la prospettiva verso un orizzonte che spesso porta i segni proprio dell’infinito. Per questo ho pensato di dedicare gli editoriali da oggi al Meeting a proporre, introducendoli sommariamente, alcuni ascolti. Ovviamente li ho scelti nel mazzo delle mie preferenze; il lettore saprà compiere lo stesso esercizio con ciò che piace di più a lui.
Cominciamo con Bach. La musica dell’inarrivabile kantor ha una specifica caratteristica: è una immensa architettura, un tempio nel quale trovano ordinata collocazione i particolari della vita e della realtà, nessuno escluso. Prendiamo, per esempio, le Variazioni Goldberg. C’è un’aria iniziale; carina senz’altro, ma uno potrebbe dire: «Tutto qui?». Poi sentiamo quello stesso motivo eseguito con un’altra tonalità, un altro ritmo, un’altra velocità. Abbiamo appena fatto in tempo a familiarizzare col nuovo clima che la situazione cambia di nuovo, introducendosi in un paesaggio e suggerendoci sentimenti ancora diversi. E così per trenta volte. È un inesausto viaggio in tutto quello che – dolore, gioia, ansia, speranza, scoramento, baldanza e molto altro – la vita può offrire. E quando, alla fine, viene riproposta l’aria iniziale, ci accorgiamo che ci voleva il genio di Bach per farci comprendere quale prospettiva infinita potesse essere nascosta sotto quella semplice melodia. Il viaggio delle Goldberg ci ha insegnato a non sentirci superficialmente soddisfatti della prima impressione: c’è sempre un territorio incognito da esplorare.
Lo stesso si può dire per i due libri del Clavicembalo ben temperato. Per molto tempo sono stati considerati come puri esercizi per impratichirsi nella tastiere, ma è bastato che qualcuno li suonasse con una certa immedesimazione per scoprire che essi – nell’alternanza di preludi e fughe – sono un prodigioso viaggio in un mare sconfinato e però stranamente familiare.


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Così si deve dire per i cicli dedicati ad uno strumento solista, che normalmente sono pensati proprio per esplorare tutte le potenzialità espressive di quello strumento. In realtà – basti pensare alle prodigiose sei Suites per violoncello – quello strumento è Bach – e nel medesimo tempo il suo ascoltatore – impegnato ad esplorare possibilità e rischi, invenzioni e cadute di se stesso. È tanto vero che le ultime variazioni realizzate da Bach nell’incompiuta Arte della fuga prendono il via da una melodia composta dalle note corrispondenti alle lettere del suo nome (le note, in tedesco, non sono do, re, mi…, ma a, b, c…).
Verrebbe da pensare che una architettura così rigorosa, per quanto possa essere ampia e variegata, finisca per essere una gabbia più che un’apertura. Ma basta sentire attentamente per accorgersi del contrario. Se poi si vuole un esempio eclatante, si ascolti il coro che segue il racconto della morte di Gesù nella Passione secondo Matteo. Le semplici e abissali parole «Sì, veramente costui era il figlio di Dio» sono cantate con un crescendo di potenza paragonabile ad un vigoroso raggio di luce che squarcia una pesante nuvola, facendo presagire il fremito dell’infinito, della resurrezione. 

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