Impressioni settembrine

L'eterna sfida di ricominciare l'anno da capo: mentre l'estate non se ne va via, la vita solita riprende e si ripresenta come sempre con la freschezza del nuovo inizio. Di PIGI COLOGNESI

È difficile spiegare l’aura strana che circola nel mese di settembre; specialmente se il clima – come quest’anno, almeno dalle mie parti – è così favorevole. È un mese bifronte. Per un verso è girato indietro a ricordare le vacanze appena trascorse; se ne fa un bilancio, se ne rievocano, da soli o insieme, i ricordi e le immagini. A parole si dice: “Che peccato siano finite! Uffa, bisogna tornare a lavorare!”, però sotto sotto si sa che è meglio così; un po’ perché le vacanze non hanno mantenuto del tutto le speranze con cui le avevamo affrontate, un po’ perché rimettere le mani in pasta nel lavoro è una sollecitazione di creatività che attrae (anche se tutto attorno cospira a distruggerla).

Così settembre è un po’ il prolungamento, leggermente nostalgico, della vacanza nel ritmo della vita normale. I ragazzi giocano nei giardinetti o all’oratorio come fossero ancora in riviera; le sere sono abbastanza lunghe da consentire di uscire a fare un giro, tanto il tempo è ancora bello e non fa neanche quel gran caldo di agosto e perfino le zanzare non si vedono quasi; le finestre restano aperte e si sente il vociare di cene fra parenti e amici come si fosse ancora in ferie.

Per l’altro verso, settembre è rivolto in avanti: ricominciano la scuola, il lavoro, le attività sociali di un qualsiasi tipo di organizzazione cui si partecipi; tutte le cose riprendono il loro ritmo abituale, dall’apertura dei negozi agli orari del tram, dalla sveglia del mattino all’agenda settimanale. La vita ricomincia.

E proprio su dove si pone l’accento delle due parti che compongono questa parola si gioca la stranezza bifronte di settembre. “Ri”, dice il mio vocabolario, è una particella verbale che indica ripetizione. C’è in essa qualcosa di meccanico, di ovvio, di già saputo, e quindi di ultimamente triste. Salvo casi eccezionali, rivedremo gli stessi colleghi, rifaremo la stessa strada dell’anno scorso per andare al lavoro, ripenseremo ai problemi quotidiani che per qualche tempo eravamo riusciti ad accantonare, rileggeremo lo stesso quotidiano che, se anche racconta ogni giorno fatti nuovi, ci dà l’impressione di dire sempre le stesse cose, parteciperemo a riunioni dalle quali a esser sinceri ci aspettiamo ben poco.

Ma in fondo sappiamo che una unilaterale insistenza sul “ri” non sarebbe vera. Niente, infatti, si rifa esattamente come l’ultima volta, perché il tempo va avanti, perché tutto si trasforma, perché qualcosa di nuovo si introduce tra i fattori dell’esistenza e nessuno può prevederlo in anticipo.

È dunque più realistico pensare che ci troviamo di fronte a un cominciare, a un permanente inizio. Certo non si comincia da zero, ma tutto quello che è stato – il peso, altrimenti sempre più ingombrante, del “ri” – non conta tanto quanto la vibrante contentezza per l’inizio, quanto l’attesa del nuovo; ne è anzi materiale di costruzione. Non è settembre ad essere bifronte. Siamo noi chiamati continuamente a decidere da che parte guardiamo: se alla monotona tranquillità del “ri” oppure all’imprevedibile freschezza del nuovo inizio. Ed è chiaro da che parte sia la ragionevolezza.

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