Cos’è la felicità?

Il Festival delle Scienze ha dedicato l'evento alla felicità. Ma la felicità è piuttosto l’oggetto di un desiderio di cui non sappiamo definire i confini. L'editoriale di PIGI COLOGNESI

L’ottava edizione del Festival delle Scienze, tenutasi a Roma dal 17 al 20 gennaio, aveva un titolo impegnativo: «La felicità» e un obiettivo ardito: scoprire se «esiste una formula della felicità». Ed effettivamente, trattandosi di scienza, non si può che ragionare in termini di formule, di dati quantificabili, di sperimentazioni replicabili e, quindi, di leggi definite. Purtroppo – o per fortuna – l’oggetto «felicità» sfugge da tutte le parti ad un simile approccio.

Si può, certo, tentare di quantificare il livello di soddisfazione di una nazione, introducendo parametri che non si limitino ai dati puramente economici; è un trend che si sta diffondendo e, in quanto considera la persona come un po’ più complessa del suo portafoglio, è un fenomeno interessante. Ma stiamo appunto parlando di livelli di soddisfazione, per loro natura mutevoli e passeggeri, e non di felicità, che è ben più complesso misurare, ammesso e non concesso che sia possibile.

Si può anche – ed è la pista più frequentata nel Festival – utilizzare tutti i mezzi a disposizione delle neuroscienze per capire cosa succede nel nostro cervello quando abbiamo una certa sensazione di benessere rispetto a quando ne abbiamo una contraria. Ma così facendo, abbiamo previamente definito la felicità come una sensazione ed è certamente definizione estremamente limitante. Ed anche pericolosa: se stabiliamo che la felicità è una sensazione di appagamento, non si vede perché sia da sconsigliare l’uso sistematico di droghe che producono tale effetto.

Oppure, ancora, se si intende la felicità come «realizzazione personale», resta alla scienza il problema di definire, come ha detto un relatore, «dove vada fissata l’asticella per ritenere una vita “riuscita”». E, aggiungo io, chi la debba fissare l’asticella: fa paura una scienza (e il potere che se ne serve) che si arrogano il diritto di stabilire il minimo accettabile perché una vita sia definita «riuscita»; che cosa se ne fa di un essere umano che si giudicasse al di sotto della soglia? Si affaccia minacciosa l’ombra della rupe Tarpea e dell’eugenetica.

Voglio dire che tentare di approcciare la questione della felicità in termini puramente scientifici è tremendamente riduttivo. Non per nulla in gran parte degli incontri romani la felicità è stata fatta coincidere col piacere, come dice, con frase francamente poco perspicua, la locandina: «Tutta la nostra esistenza è tesa a massimizzare la totalità del piacere e della realizzazione personale». Non mi scandalizza che poi, parlando di piacere, si finisca per concentrarsi sul sesso (ampiamente presente in cartellone) e, secondariamente, sul cibo; sono aspetti divertenti ed è sempre simpatico – oltre che attrattivo di pubblico – parlarne. Ma la felicità non è il piacere.

La felicità è l’oggetto di un desiderio di cui non sappiamo definire i confini e i limiti, è il contenuto di un’attesa così totalizzante che è in grado di comprendere piaceri e dispiaceri, soddisfazioni e sconfitte, è il bisogno di oltrepassare il confine stesso della morte. Per questo la felicità, che non si lascia ridurre a piacere, deve essere portata da qualcosa o qualcuno al di fuori di noi, da un bene della stessa infinita dimensione del nostro desiderio. Si dice che «la felicità non è di questo mondo» ed è vero. Non tanto nel senso che riguarda l’al di là, bensì per il fatto che è «una cosa dell’altro mondo». Alla quale siamo incamminati in un itinerario in cui gioie e piaceri ne sono consolante preannuncio, che non si è tanto interessati a star lì a misurare col microscopio della scienza.

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