Che cos’è l’orrore?

Tutti noi possiamo essere come quegli psicopatici del Midwest o come gli islamisti nigeriani. Non ci vuole molto. Basta negare l’evidenza, l’esperienza concreta. LUCA DONINELLI

Che cos’è l’orrore? I mezzi di comunicazione ce lo rovesciano addosso a tonnellate. C’è qualcosa da capire? O forse l’orrore è tale proprio perché non c’è assolutamente niente da capire? C’è qualcosa da capire in un cane nato con due teste?

Eppure se unite i puntini qualcosa apparirà. 

In Tunisia, un paese vissuto fino a poco tempo fa sotto la dittatura buonista di Ben Alì adesso gli islamisti impazzano: ucciso il leader dell’opposizione, ucciso un ragazzo durante una manifestazione. Eppure tutto cominciò con un commovente, eroico fremito di libertà che chiamammo “primavera araba”. 

Era prevedibile che tutto finisse così? Diciamocelo: sì. Era prevedibile perché le cose vanno sempre a finire così. È la triste legge del mondo, dicono…

Le autobombe contro le chiese cristiane dalla Nigeria al Sudan, gente fatta a pezzi mentre assiste alla Messa. Le stragi in Siria, ultimo baluardo della realpolitik europea, ben attenta a non turbare i rapporti di forze. La guerra nel Mali, con il ricordo della vergogna libica ancora fresco in un’Europa che poi si è autopremiata con il Nobel. 

Ci sono poi questi stati del Midwest americano, dove ogni giorno qualcuno esce di casa e ammazza tre, cinque, venti persone. Con case simili ad arsenali e uno Stato, il Colorado, che decide di non ottemperare alle indicazioni di Obama circa la limitazione della vendita di armi da fuoco. E noi a continuare a parlare di psicopatici, come se l’aria del Midwest inducesse all’insania mentale. Ma la facciamo finita una buona volta? 

C’è infine tutta una quantità di persone che continua, da anni, ad attraversare il Mediterraneo, lasciando in mare migliaia di morti (figli, madri, padri) per i quali nessun richiamo al valore non negoziabile dell’esistenza al mondo trova difensori autorevoli, se si esclude lui, il Papa, ossia l’Inascoltato, servitore di Colui che è Inascoltato per eccellenza. Lui inascoltato, e i Suoi poveri a morire davanti al Suo altare.

Di fronte a tutto questo – e a molto altro ancora – le posizioni che il mondo propone sono due, e sono come i rintocchi del pendolo della storia: da un lato il cinismo di chi si ritira da ogni impegno sostenendo che il mondo è così da sempre, dall’altro la rabbia disperata di chi, non vedendo vie d’uscita, si affida alla violenza come unico antidoto alla depressione. 

Sembra che il vero problema per tutti sia quello di salvarsi dalla depressione. In attesa che altri guai ci tolgano finalmente di mezzo (chi aveva detto che il sentimento fondamentale dell’uomo è la paura del suicidio?).

E adesso unite i puntini, ed ecco che cosa apparirà: un muro. Un grande muro fatto di astrazione, di discorsi senza nesso con l’esperienza dell’uomo, il quale − tanto per cominciare − di andarsene da questo mondo, da questa vita non ne ha nessuna voglia, perché la vita è meravigliosa, struggente la sua bellezza, mirabile l’ordine misterioso che la governa. 

Per dimenticare questa evidenza occorre erigere un muro di parole, di discorsi, di argomentazioni, di chiacchiere. È il muro di chi − qualunque cosa dica di sé stesso, credente o non credente, devoto o bestemmiatore, scientista, arabo, seguace di Messegué, sostenitore o denigratore dei più sacri valori − di chi, dicevo, pensa in cuor suo di non avere più nulla da imparare nella vita. 

Chiamateli psicopatici del Colorado, chiamateli Talebani, chiamateli islamisti tunisini, chiamateli come vi pare, una cosa è certa: che per tutto loro l’idea che “la vita è più grande di noi” o è una stupidaggine o è uno slogan da recitare a pappardella, ma non è la verità di tutti gli istanti. Perché la verità loro la sanno già, e il mondo può offrire − al massimo − qualche conferma: Lo vedete? Ditemi se non avevo ragione…

Non è difficile essere come loro, dice una canzone che tanti di noi hanno cantato decine e decine di volte senza mai pensare al significato di quelle parole. L’autore si chiamava Claudio Chieffo, tutti lo lodiamo, tutti ne parliamo, tutti ne prendiamo spunto (come io adesso) ma pochi hanno vera stima del suo pensiero originale e profetico. 

Tutti noi possiamo essere come quegli psicopatici del Midwest o come gli islamisti nigeriani. Non ci vuole molto. Basta negare l’evidenza, l’esperienza concreta. Basta teorizzare che il meglio c’è già stato. 

Julián Carrón usa spesso un’espressione che a me piace moltissimo: Il meglio deve ancora venire. Non è un auspicio, è una certezza. Il meglio deve ancora venire perché la mia vita, qui e ora (e quali che siano le mie opinioni sul mondo) vive del rapporto con Qualcosa che la oltrepassa infinitamente. Ed è da quel Qualcosa, non da noi, che scaturisce ogni giorno il contenuto concreto della nostra vita. 

Questa è la svolta antropologica e culturale importante, che l’uomo attende: perché l’uomo è soprattutto questa attesa. 

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