La tragedia di Perugia è la nostra solitudine
La disperazione spiega, ma non giustifica. E la ‘società’ vista come nemica, è una indistinta massa che sfuma la responsabilità. GIANFRANCO FABI, va al fondo della tragedia di Perugia

La disperazione spiega, ma la disperazione non giustifica. La tragedia di Perugia, con l’uccisione di due impiegate da parte di un imprenditore che poi si è tolto la vita, costituisce sicuramente un capitolo dell’amara storia della crisi economica, una crisi che sempre di più colpisce nel profondo la vita delle persone.
E’ vero, mai come in questo periodo le difficoltà del Paese si riflettono sulle prospettive delle aziende e le difficoltà delle aziende coinvolgono a tutti i livelli lavoratori e imprenditori. I numeri della crisi sono agghiaccianti. Il 2012 si è chiuso con -6,2% per la produzione industriale; -4,3% il fatturato; -9,8% gli ordinativi nell’industria; -14% la produzione nelle costruzioni; -32,7 miliardi di euro di prestiti bancari alle aziende; + 14,4 miliardi di euro di sofferenze bancarie in capo alle imprese. E, tranne che negli auspici degli esperti, non si vedono ancora segni concreti di ripresa.
Non si può dimenticare tuttavia che la crisi ha anche moltiplicato i contratti di solidarietà e ha messo alla prova i meccanismi di tutela sociale come la cassa integrazione, ma ha anche generato le occasioni di solidarietà e di assistenza come il Fondo famiglia-lavoro della Diocesi di Milano che ha deliberato proprio nei giorni scorsi i primi aiuti.
Il disagio sociale, ampio e profondo, non basta tuttavia a giustificare la causa di gesti disperati come quello di Perugia o come quello di Campodarsego, dove all’inizio di febbraio un commerciante ha sparato ferendo gravemente un direttore di banca che gli aveva negato il rinnovo di un fido. Proprio in quell’occasione il presidente del Credito cooperativo Alessandro Azzi sottolineava la necessità di “riflettere sui rischi pesantissimi che un eccesso di semplificazione e la conseguente, anche involontaria, creazione di un ‘nemico’ possono produrre. Troppo spesso le banche, indistintamente, sono presentate dai media come insensibili alle esigenze delle famiglie e delle imprese, dedite al mantenimento di rendite di posizione. E’ una visione miope e pericolosa. Miope perché non considera il lavoro che tante Banche, e le Bcc in particolare, fanno spesso con evidenti sacrifici per sostenere l’economia reale. Pericolosa perché rischia di innescare derive populiste che non fanno il bene di nessuno, anzi inducono un ulteriore spreco di civiltà che il nostro Paese non può permettersi”.
E così come le banche anche “la società” può essere vista come un nemico, come una entità ostile, incapace di riconoscere problemi e difficoltà. Ma accusare “la società”, questa entità indistinta in cui si annebbiano le responsabilità di ciascuno, diventa un falso alibi, un comodo capro espiatorio a cui addossare le colpe proseguendo ognuno per la propria strada.
Le difficoltà economiche invece possono essere considerate il detonatore di un malessere che è fatto soprattutto di solitudine, di smarrimento, di angoscia. E’ allora proprio quando diventano più opprimenti risalta l’importanza delle relazioni costruttive, di una solidarietà concreta, di una rete di rapporti umani capace di non far spegnere la speranza.
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