Il cristianesimo senza Cristo

Cos’è la Pasqua? Che significato ha oggi? I cristiani stessi sanno esattamente cosa comporti la Resurrezione di Cristo? Da queste domande parte l’analisi di FERNANDO DE HARO

Pasqua. Oltre agli ebrei e ai cristiani ci sono gli “altri” cittadini del mondo che includono nel loro calendario questa festa. Di che cosa si tratta? Non è facile rispondere a questa domanda, soprattutto in un contesto in cui il significato di Pasqua e Resurrezione è spesso dato per scontato. Il nuovo Papa ha assicurato che ciò che ha detto e scritto il suo predecessore dovrebbe essere preso come riferimento continuo. Possiamo farlo in questo caso.

“Una nuova dimensione della realtà”, “l’ultima e suprema trasformazione”, un “salto qualitativo radicale”, un “salto ontologico che riguarda l’essere in quanto tale”. Quattro espressioni che Benedetto XVI utilizza nel suo libro Gesù di Nazaret per rispondere alla domanda. Di questo si tratta quando i cristiani parlano di Pasqua. Ma un’altra domanda arriva immediatamente dopo questa risposta: in che cosa consiste questa trasformazione? Una risposta esaustiva comporta molte implicazioni, ma lo stesso Benedetto XVI nel già citato libro fa riferimento a una di esse: l’uomo non è più condannato a inseguire da solo, con le sue scarse energie, quello a cui aspira.

Il cristianesimo afferma che Gesù è risorto dai morti e con il suo nuovo corpo, la Chiesa, continua a essere presente nella storia. Coloro che credono non seguono una “morale suprema” di un giudeo di circa 2000 anni fa, che sarebbe stato un grande maestro di etica. Essi possono essere contemporanei di quel mistero a cui ogni uomo aspira e che è diventato un io più intimo dello stesso io grazie al battesimo.

Ma attenzione, perché la Pasqua non è una questione “interna”. La globalizzazione ha diffuso uno dei principi su cui si è basata la cultura occidentale negli ultimi secoli: il destino dell’uomo è a portata di mano. Può conquistarlo con disciplina e se sa porsi i giusti obiettivi. I manuali di auto-aiuto per la felicità nelle relazioni di coppia e la pienezza esistenziale sono l’espressione più diffusa di questa mentalità. Ma i più svegli sanno che questo nobile sforzo è destinato al fallimento. La Resurrezione si presenta come la risposta a ciò che, in un modo intuitivo, i lettori di questi manuali ricercano. Il destino non dipende da una buona organizzazione o dalla forza di volontà.

Quindi la domanda è semplice e allo stesso tempo affascinante. O lo era fino a che una parte importante del cristianesimo ha smesso di essere cristiana. Anche tra i cattolici. Lo ha ricordato con chiarezza papa Francesco durante la Settimana Santa e, a tal fine, ha fatto ricorso a un’antica eresia del V secolo con cui ebbe a che fare Sant’Agostino. “I corsi di auto-aiuto nella vita possono essere utili, però vivere la nostra vita sacerdotale passando da un corso all’altro, di metodo in metodo, porta a diventare pelagiani, a minimizzare il potere della grazia”, ha detto il Santo Padre.

Perché il Papa ha fatto riferimento al pelagianesimo? Le grandi controversie dogmatiche dei primi secoli della Chiesa non sono archeologia. Ai quei tempi si dibatterono questioni essenziali sulla vita umana e sul valore della libertà che ancora oggi riguardano la nostra vita quotidiana. Non molto tempo fa, David Brooks ha utilizzato in un suo editoriale sul New York Times l’eresia del donatismo per spiegare alcune questioni di attualità.

Ma cos’è il pelagianesimo? “Questo è l’occulto e orrendo veleno della vostra eresia: voi volete che la grazia del Cristo stia nel suo esempio e non nel suo dono”, spiega Sant’Agosino. Un cristianesimo senza Cristo, senza Resurrezione. L’uomo, attraverso il suo sforzo, sarebbe condannato a seguire un Gesù che non è presente. Invece di quella novità affascinante che è implicita nella vera esperienza cristiana – il misterioso intreccio di grazia e libertà -, solo la volontà. Come se non ci fosse stata alcuna trasformazione.

In un’intervista a quel grande settimanale italiano che fu Il Sabato, negli anni ‘90, Ratzinger affermava che il dibattito tra Agostino e Pelagio avveniva in un contesto “in un certo modo paragonabile” a quello attuale. “Viviamo oggi – diceva – in un mondo paganizzante, razionalista, dove il Mistero è difficilmente accessibile. È un mondo, il nostro, che può accettare, perché evidente, la necessità di leggi morali, di norme morali, ma non può capire che c’è un’espiazione, che c’è Uno che può perdonare e può così ricostruire la completezza della nostra vita. […] Questa è la grande missione della Chiesa di oggi, ma non è realizzabile senza una testimonianza vissuta, dove, tramite la vita realizzata, diventi anche un po’ visibile la realtà della dimensione del Mistero, del perdono, della cristologia. Se rimaniamo su un livello puramente intellettuale, come è la nostra grande tentazione in un mondo intellettualizzato in cui mancano le esperienze di fede, allora diventa normale essere pelagiano”. Ma, per fortuna, non siamo condannati ai manuali di auto-aiuto. Non siamo soli con le nostre sole forze.

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