L’accidia

- Pierluigi Colognesi

PIGI COLOGNESI parla di accidia citando anche san Giovanni Crisostomo. Il grande vescovo non impone ulteriori sensi di colpa sulle spalle di chi è depresso ma ricorda che fa parte della vita

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Penso che ormai ci sia pochissima gente che si confessi del peccato di accidia. Eppure essa va a costituire (assieme a superbia, avarizia, invidia, ira, lussuria e golosità) l’elenco dei sette «vizi capitali» e sulla sua specifica pericolosità hanno riflettuto parecchi santi.

Il significato della parola – in consonanza con il peccato che descrive e coi gesti che lo manifestano – non è schematicamente definibile. L’accidia si avvicina molto ad un’amara tristezza che non ha motivazioni precise, ad una insoddisfazione vaga e generica che preferirebbe qualsiasi situazione salvo quella in cui ci si trova, ad una pigrizia giustificata dall’assenza di energie – gli «ignavi» di dantesca memoria -, fino all’inquietudine ansiosa e allo smarrimento totale, nel quale sono possibili i gesti più estremi.

Sono tutti sintomi che ci inducono a pensare ad una parola ora parecchio usata – ed abusata – per descrivere molti caratteri profondi ed insinuanti della nostra condizione esistenziale: depressione. Ne ha parlato in un recente articolo lo psicanalista Massimo Recalcati. Egli osserva che nella nostra società si sono imposti due «comandamenti»: il «nuovo» e il «successo». Il primo spinge a «scambiare quello che si ha con quello che ancora non si ha nell’illusione che è quello che non si ha a custodire la felicità».

Quanto al secondo, «nessun tempo come il nostro ha enfatizzato come questione di vita o di morte la realizzazione del proprio successo personale», giungendo però a togliere ogni possibilità di significato costruttivo al fallimento o all’errore, che pur fanno parte dell’esperienza.

«L’uomo è divenuto una macchina di godimento. E quando questa macchina funziona meno, non è oliata sufficientemente, non ha più benzina, o, più semplicemente, si guasta, si rompe, c’è la caduta nel vuoto», la depressione appunto.

Il fatto è che la percezione comune – basta leggere i commenti a tristi fatti di cronaca quotidiana: omicidi apparentemente inspiegabili, suicidi senza particolari motivi, violenze diffuse –, facendo ricorso alla depressione, tende a giustificare ogni comportamento, a farlo dipendere da meccanismi così profondi da non implicare la responsabilità dell’agente.

Coraggiosamente Recalcati ricorda che c’è un’altra ipotesi di lettura, quella che riporta al «giudizio di condanna che i padri della Chiesa esprimevano sull’accidia e ha l’obiettivo di mostrare che nella depressione c’è sempre una responsabilità del soggetto che non va dimenticata».

Tra i molti testi dei padri della Chiesa che si sono occupati di accidia c’è A Stagirio tormentato da un demone di san Giovanni Crisostomo.

Il grande vescovo non impone ulteriori sensi di colpa sulle spalle del suo interlocutore, afflitto da depressione; proprio così la versione italiana traduce il greco athymia, cioè abbattimento d’animo, avvilimento.

Semplicemente gli ricorda che difficoltà, fallimenti e insuccessi fanno parte della vita. Non sappiamo – scrive – perché Dio li permetta, ma siamo certi che anch’essi servono a procedere nel cammino di bene verso un destino di felicità: «Dio ha voluto inserire la depressione nella natura umana non perché con leggerezza e inopportunamente ricorriamo ad essa nelle circostanze contrarie e neppure per consumare noi stessi, ma per trarne il massimo profitto».

Quindi, totale realismo nella constatazione delle difficoltà, ma nessun cedimento – qui sarebbe il peccato – allo sconforto.

È su questo sottile crinale che la libertà può sempre scegliere. Ne consegue, conclude Giovanni Crisostomo, che «dobbiamo essere depressi non quando patiamo qualcosa di avverso, ma quando operiamo male».

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