La politica cambia, e noi?

Si è sempre detto che l’Italia non meritava una classe politica come questa. In realtà, qualcosa i politici hanno fatto e nessuno forse se lo aspettava. E adesso? LUCA DONINELLI

Si è sempre detto che l’Italia non meritava una classe politica come questa. Si è sempre detto che questa classe politica non era lo specchio del paese, essendo stata eletta secondo una legge elettorale che di tutto poteva essere l’espressione fuorché della volontà popolare. Si è sempre parlato di casta, di mandarli tutti a casa, di cacciarli a calci nel c…, ce la siamo presa con i doppi stipendi, con le superpensioni, con le auto blu. 

Tuttavia questa classe politica allo sbando, screditata, non riconosciuta dagli italiani come loro rappresentante, ha saputo compiere un gesto importante e controcorrente, formando un governo quando sembrava a tutti impossibile. Un gesto, vorrei precisare, compiuto non solo dai “nuovi” ma anche e (forse) soprattutto dai “vecchi”. 

Non so quanto durerà e nemmeno se questo governo saprà rispondere ai mille problemi che deve affrontare. Non so (nessuno sa) se qualcuno dei suoi componenti verrà meno all’impegno preso, facendo crollare questa fragile costruzione come un castello di carte. Quello che so è che non era affatto scontato che accadesse, e invece è accaduto. È stato fatto un passo. 

Quello che preoccupa non sono tanto le sciocchezze che possono sfuggire a questo o quel politico. Se il Presidente della Camera, con riferimento al gravissimo episodio di sangue davanti a Palazzo Chigi, dice che in una situazione di crisi le vittime possono diventare carnefici, be’, è una sciocchezza, un commento da rotocalco per il quale non ha senso, però, indignarsi. Sarebbe meglio evitare commenti destinati a irritare nervi già scossi, ma una volta commesso l’errore è consigliabile lasciar perdere.

Quello che preoccupa, dicevo, è la scarsa disponibilità, che vedo intorno a me, a comprendere il valore umano di quel gesto. Nel 1958 il sociologo Edward C. Banfield coniò, in un suo celebre saggio, l’espressione “familismo amorale” intendendo con essa la tendenza – tipica a suo parere delle società arretrate – a leggere tutte le azioni altrui in base al principio dell’interesse personale o di clan. Se Tizio dona tutto quello che ha ai poveri, c’è sempre un Caio che pensa: “Avrà avuto il suo interesse”.

Ciò che Banfield non poteva immaginare è che il familismo amorale, anziché scomparire, nella società futura si sarebbe affermato.

Basta leggere sui siti web dei quotidiani la maggior parte dei commenti alle notizie di cronaca per fare la conoscenza di questo modo sospettoso e malevolo di affrontare qualsiasi argomento, dalle difficoltà del governo alle parole del Papa. La cosa non riguarda purtroppo solo gli internauti ma anche personaggi pubblici, che si dicono nemici della violenza ma non rinunciano ad alimentare l’inquietudine.

Forse qualcuno di loro, nell’intimo, ha cominciato a pensare che solo una rivolta violenta, non diciamo una guerra civile, può rimescolare le carte ponendo − tra le macerie del mondo vecchio − le premesse di un rinnovamento del paese. È una convinzione pericolosa perché fondata su un’idea astratta della giustizia e del bene dell’Italia. 

Il tempo in cui viviamo c’insegna che l’astrazione non nasce soltanto, come venti o trent’anni fa, dall’adesione a un credo ideologico, ma spesso striscia inavvertitamente dentro le posizioni che si vorrebbero più realiste. Questo accade (in politica come nel resto della vita, compresi i rapporti familiari) quando le nostre persuasioni (per quanto sacrosante) ci bloccano nel naturale cammino verso chi è diverso da noi, quando quello che pensiamo di sapere già soverchia il naturale bisogno di imparare qualcosa di nuovo. 

Anni fa un mio amico diceva: il problema non sono le ragioni o i torti, ma come ci trattiamo tra noi. I politici che hanno dato vita al governo hanno dimostrato che trattarci meglio, mettendo per un momento da parte i sospetti reciproci, è possibile, e non è affatto un segno di debolezza.

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