Manifestanti silenziosi

Per PIGI COLOGNESI, il silenzio può parlare più delle grida, una composta approvazione esprimere più di un fragoroso applauso, un gesto sobrio comunicare meglio di un atto sguaiato

La variegata compagine di quelli che, in Francia, erano contrari all’approvazione del matrimonio e dell’adozione per le coppie gay ha introdotto un strana forma di protesta: si radunavano in piazza, ma non per fare chiassosi cortei e tantomeno atti di teppismo, semplicemente si mettevano ciascuno a leggere un proprio libro. Una protesta che ha messo molto in imbarazzo la polizia: non si trattava di manifestazioni non autorizzate da disperdere, perché i protestatori stavano a debita distanza l’uno dall’altro, non occupavano abusivamente nessun luogo pubblico: se ne stavano lì in piazza, in piedi a leggere silenziosi, tacito richiamo ad un modo di pensare alternativo a quello dei legislatori, resi impotenti di fronte a quella civilissima protesta.

Ora, sempre in Francia, sono iniziate le «veglie»: ritrovi serali di persone, soprattutto giovani, che si siedono in qualche luogo pubblico, accendono lumini e ascoltano la lettura di qualche brano sui diritti della famiglia composta da un uomo ed una donna, sulla pace, sulla speranza, sulla generosità, sull’impegno, sulla resistenza non violenta. Qui la polizia ci è andata più pesante: a volte ha sciolto il raduno e anche arrestato qualcuno. Ciò che colpisce in queste forme di espressione di dissenso – ci sono dei video su YouTube a riguardo – è la pacatezza dei modi, la sobrietà del metodo scelto: niente urla, niente fracasso, niente proclami roboanti, niente gesti eclatanti, niente «azioni dimostrative». Sembrerebbe che, in un contesto sociale stracarico di informazioni e provocazioni, per farsi sentire occorra gridare più degli altri, scandalizzare, sconcertare, stare sempre un po’ sopra le righe, spararla più grossa di tutti. E invece non è detto che in tal modo si sia più ascoltati. Anzi.

Qualche anno fa ho avuto la fortuna di pranzare con il grandissimo violoncellista Mstislav Rostropovic. Raccontò che quando era ancora in Unione Sovietica (fu poi espulso per aver dato ospitalità a Solženicyn di cui era amico) doveva assecondare i dettami del partito che prevedevano che tutti i musicisti suonassero «per il popolo»; gli capitò, così, di fare una tournée in sperduti villaggi del gelido nord della Russia.

Una volta suonò nell’ampia baracca-bar che faceva da ritrovo serale per tutti gli abitanti di un paesino di boscaioli. I quali, poco avvezzi alla musica classica, continuavano a bere e parlare mentre Rostropovič eseguiva i suoi pezzi. Indispettito il violoncellista aumentò il volume del suono, ma più lui suonava forte più gli avventori alzavano il tono della voce. Giunto al limite estremo delle possibilità sonore dello strumento, Rostropovič improvvisamente attaccò una struggente melodia in «pianissimo». Di colpo tutti tacquero e cominciarono ad ascoltare rapiti. «Da allora – concluse Rostropovič – ho capito che il “pianissimo” può essere più potente e coinvolgente di un “fortissimo”».

Così il silenzio può parlare più delle grida, un composta modalità di approvazione esprimere più di un fragoroso applauso, un gesto sobrio e misurato comunicare meglio di un atto sguaiato e scomposto. Una lezione che dovrebbero mandarsi a memoria conduttori e partecipanti di talk show, predicatori enfatici e liturgisti avidi di spettacolarità, politici che non sanno tenere a freno la lingua e giornalisti che usano per inchiostro solo il veleno. E, nel nostro piccolo, anche tutti noi.

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