L’insostenibile leggerezza del reale

Nel caso della periferia di Tor Sapienza il disastro di un’intera sottocultura politica che governa aree consistenti del nostro Paese appare in tutta la sua gravità. SALVATORE ABBRUZZESE

Ci sono luoghi nei quali l’incapacità di governo, la superficialità delle analisi, il cinismo pratico e le logiche spartitorie impattano con problemi gravi, dinanzi ai quali occorrerebbero esattamente le virtù opposte: la capacità di amministrare, l’attenzione ai singoli ed ai gruppi, la ricerca di risultati reali, tanto a breve quanto a medio termine. Nel caso della periferia romana di Tor Sapienza (ma la realtà è ben più estesa) il disastro di un’intera sottocultura politica che governa aree consistenti del nostro Paese appare in tutta la sua gravità.

Si assiste infatti alla rottura di qualsiasi patto sociale, si è dinanzi alla fine di qualsiasi legame fiduciario. Per chi vive in queste aree grigie della periferia romana le istituzioni comunali potrebbero anche scomparire in quanto semplicemente non servono. Il comune sembra ingoiare soldi per far funzionare uffici che possono tranquillamente chiudere per inefficacia pratica ed inutilità conclamata.

Ma non c’è solo il degrado politico, accanto a questo ha operato anche una sfilacciata insipienza culturale. Figli del boom economico ed eredi di una società tesa a sbarazzarsi di ogni consapevolezza storica, abbiamo assistito per anni al primato di una cultura gaia che ha interpretato la realtà occultandone il dolore, non cogliendone il dramma.

È a questa cultura dell’insostenibile leggerezza del reale che dobbiamo l’attitudine a ritenere la prostituzione come un semplice problema di decenza morale, l’uso di droghe leggere come un passatempo innocuo, la mendicità di strada come espressione di una povertà del singolo eternamente uguale a sé stessa, come ai tempi dei “miserabili” di Victor Hugo o della “piccola fiammiferaia” di Andersen: l’Ottocento come serbatoio di immagini e gli anni Sessanta come riserva di concetti.

In tutti e tre i casi questa cultura commette due errori fondamentali. Il primo ed il più grave è quello di mettere tra parentesi il dolore, l’oppressione e il dramma che quasi sempre circondano queste figure. Si ritiene così il mendicante una vittima della semplice miseria economica e non l’ostaggio di un racket organizzato. Esattamente come si ritiene la prostituta ed il tossicodipendente come i protagonisti di una strategia di vita e non l’espressione di un degrado della vita stessa.

Il secondo limite consiste invece nell’incapacità a rendersi conto di quanto tali comportamenti devianti inneschino un mercato criminale, come è emerso nel triste caso delle due coppie di clochard di Genova, massacrate nel sonno a colpi di spranga sotto gli occhi di una mesta telecamera notturna il 25 gennaio di quest’anno, per via non del presunto “odio razzista” come si è subito improvvidamente ritenuto, bensì del “racket dell’elemosina”, come si è scoperto sei mesi dopo.

È questa cultura superficiale non priva di scoperte semplificazioni ideologiche che, dimenticando il dolore da un lato e i rischi reali dall’altro, ha mancato di prendere le misure della sofferenza e della frustrazione del degrado delle periferie. Altrettanti luoghi dove ci si era trasferiti trent’anni fa con immensa speranza e che adesso sono diventati una trappola per chi, a causa del reddito modesto, e costretto a restarci. È a questo livello che le parole di Papa Francesco, se ascoltate nella loro integralità, mostrano la loro rilevanza. Se da un lato il dialogo e il rifiuto della violenza sono aspetti dai quali non si può prescindere e la comunità cristiana continua ad esercitare il suo ruolo di luogo d’incontro, dall’altro anche il dialogo ha le sue esigenze: costituisce un metodo e non la soluzione, fornisce un modello di discussione non la via d’uscita.

La premessa per il dialogo è data dal realismo con il quale i problemi sono riconosciuti, affrontati e non nascosti sotto il tappeto, scambiando magari per semplice indecenza quello che è degrado morale e per intolleranza quello che invece è dolore, insicurezza e paura. Proprio per questo si tratta di riconoscere “quella che ormai costituisce un’emergenza sociale e che, se non affrontata al più presto e in modo adeguato, rischia di degenerare sempre di più”.

Ciò implica per entrambe le parti la coscienza di risiedere in un luogo strutturato e non in un territorio abbandonato, presso una collettività territoriale e non in un semplice aggregato anonimo, popolato da indifferenti. Solo con il realismo della presa d’atto dei problemi reali il dialogo può essere concreto e garantire i migliori risultati.

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