L’alternativa al populismo

In Spagna Podemos continua a guadagnare consensi, così come cresce il populismo nel resto d’Europa. FERNANDO DE HARO ci aiuta a capire come rifondare la politica dal basso

La Spagna è un Paese di paradossi. Rajoy, il primo ministro, è stato invitato lo scorso fine settimana in Australia per aprire le sessioni del G-20, organismo a cui non appartiene e al quale ha preso parte in qualità di invitato. Le sue parole sul modello di politica economica spagnola sono state ascoltate con attenzione. Tuttavia, secondo gli ultimi sondaggi, nel suo Paese non raggiungerebbe il 12% dei voti. E mentre Rajoy parlava dall’altra parte del mondo, l’uomo del momento, Pablo Iglesias, è stato “incoronato” Segretario generale di Podemos. Guiderà quindi il partito che al momento raccoglie più voti nei sondaggi (17%). Paradosso nel paradosso, Podemos è però una formazione in cui la maggioranza dei suoi stessi elettori non crede: quasi tutti sanno che le “soluzioni” che propone sono impraticabili.

In un Paese come la Spagna, dove la separazione tra religione e politica è quasi ossessiva dalla fine della dittatura, Pablo Iglesias utilizza permanentemente un linguaggio messianico. Dice che vuole prendere il cielo d’assalto e parafrasa le beatitudini per raccomandare ai suoi seguaci di sorridere quando saranno insultati ed emarginati, perché sarà loro la vittoria finale.

Cosa può spiegare tanta contraddizione? Il mondo è forse impazzito? Semplicemente la gente si è stancata di quelle che considera delle istituzioni lontane dalle proprie necessità, dai propri desideri. Se si potesse usare una parola, diventata sovversiva, si potrebbe dire che rifiuta la vita pubblica perché la considera lontana dalla verità.

Il sistema politico e istituzionale creato durante la Transizione verso la democrazia, che Podemos chiama “casta”, ha continuato a perdere la sua luce ideale. Viene percepito, nel migliore dei casi, come un procedimento inutile e, nel peggiore, come un centro di corruzione. I richiami a ricostruire la fiducia attraverso il recupero di una tradizione civica scomparsa non servono. All’ondata di populismo che percorre tutta l’Europa non si può rispondere invocando un passato glorioso in cui far comparire, come in un Pantheon, i padri fondatori, i meriti accumulati durante la ricostruzione postbellica o l’unificazione ottenuta dopo la caduta del muro. Tutto questo è stato codificato in una grammatica e in una sintassi che non sono più comprensibili dalla nuove generazioni. Non c’è una stele di Rosetta capace di tradurli. I valori comuni che sostenevano questa tradizione non si possono riconoscere nella superficie di marmo su cui sono stati scolpiti: l’erosione li ha resi illeggibili.

Non perdiamo tempo a cercare un nuovo Champollion, per costruire una nuova cittadinanza europea bisogna partire dalle cose più essenziali nel presente: la relazione tra la politica e il bisogno di pane, di giustizia, di lavoro, di pace, di vivere in un sistema economico più umano di quello offerto da una globalizzazione spesso spietata; la necessità e il desiderio di andare incontro all’altro, al di là di quello che pensa, per costruire un mondo di relazioni in cui si possano affrontare le sfide sociali con più intelligenza ed efficacia.

Questa invocazione del desiderio e del bisogno può sembrare “naif” se pensiamo alla sfida di un sistema che sta finendo. E sicuramente lo sarebbe se non fosse accompagnato da un invito a percorrere il lungo cammino che va dall’origine del nostro stare insieme fino alla complessità dei sistemi regolatori, finanziari e istituzionali.

I populismi non sbagliano nel diagnosticare la malattia della disaffezione. Il loro errore sta nella terapia che offrono: l’ennesima ideologia. L’unico modo di recuperare il legame tra il desiderio personale e pubblico è una cultura della responsabilità. E quest’ultima non ha nulla a che vedere con un freddo volontarismo: è la risposta che diamo a quella necessità che ci mette in movimento e che ci fa scoprire il resto delle cose come mai lo abbiamo visto finora. In questo senso si può dire che la prima forma di politica è vivere. La politica non è sotto, né sopra di me: sono io. Per questo non si può ricostruire dall’alto.

Cominciamo ad accorgerci che le cose stanno cambiando quando rinasce una particolare stima per l’altro: la democrazia non è sostenibile senza una certa dose di carità.

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