Quando le idee oscurano i volti

Dov'è finita la generazione scesa in piazza a Mosca nel '91, per difendere la libertà dei Paesi baltici? Spesso, per individuare la "parte giusta", dimentichiamo noi stessi. MARTA DELL'ASTA

Qualcuno ha postato su Facebook una foto impressionante del Cremlino di Mosca circondato da una folla strabocchevole di 600mila persone, scese in piazza per protestare contro le violenze della polizia sui manifestanti nei Paesi baltici. Era il gennaio 1991 e a Vilnius c’erano appena stati 14 morti. Qualcosa di inaspettato era successo, un soprassalto collettivo di dignità risvegliato dalle manifestazioni pacifiche e ferme dei baltici, e propagatosi poi ai cittadini sovietici. Oggi folle di queste dimensioni, in Russia, non se ne vedono più, neppure alle manifestazioni patriottiche filogovernative, come quella trionfale del 18 marzo 2014 per l’annessione della Crimea, che ha mosso “solo” 60mila moscoviti.

Dov’è finita la generazione scesa in piazza nel ’91? Molti, probabilmente, dopo vent’anni non ci sono più, e molti hanno cambiato idea. Ora se ne stanno a casa, o anche sostengono il governo. E viene spontaneo domandarsi per quali motivi sia avvenuto questo radicale cambiamento di posizione. Tra le possibili cause di questo “scivolamento” qualcuno cita il fatto che la gente cambia quando vede sfaldarsi le sicurezze su cui poggia il suo piccolo mondo privato; se il benessere rende facile essere delle brave persone aperte, non appena le certezze incominciano a traballare il mondo appare subito ostile, e ciascuno cerca qualcosa a cui aggrapparsi; incomincia così a detestare quelli che disturbano l’equilibrio, che è sempre tranquillizzante. Per la gente è importante poter individuare la “parte giusta”, e la trova in chi offre stabilità, non in chi la mette in forse. Questo è un fenomeno universale che rispecchia, in fondo, sfiducia, mancanza di speranza nel futuro; lo si vede persino nei cristiani, quando cercano dei nuovi punti fermi esterni. Infatti anche il cristianesimo può diventare una forma di ideologia, che pone al centro preoccupazioni del tutto terrene, come il patriottismo, oppure dei “valori” astratti, oggetto di crociata, polemicamente contrapposti al “resto del mondo”.

A Mosca si sono visti dei sacerdoti ortodossi un tempo liberali, farsi sostenitori dell’ordine e dell’autoritarismo; padre Artemij V. ha auspicato che gli ortodossi trovino un’acconcia “ideologia spirituale”, ed ha pubblicamente invitato i credenti ad arruolarsi nel NOD, Movimento di Liberazione Nazionale. Qualcuno pensa che sia semplicemente venuto a galla il suo sogno segreto di una Russia grande e ortodossa, un ideale religioso già ambiguo all’inizio. Può essere. Comunque non è detto che si tratti sempre di un errore iniziale; queste fluttuazioni e scivolamenti fanno capire piuttosto che una posizione non è mai presa una volta per tutte, e che non mette al sicuro dai cambiamenti, dal rischio di dover dare ragione. Altrimenti le posizioni decadono e si corrompono.

Se questo vale per i “liberali russi degli anni 90” che non scendono più in piazza, vale anche per i cattolici tradizionalisti in Europa che cercano idoli politici a Est, e anche per gli stessi ucraini che hanno fatto il Majdan, che rischiano anche loro di scivolare nell’orgoglio: i russi manifestavano per la Russia senza Putin e sono finiti in niente, gli ucraini volevano l’Ucraina senza Janukovic e l’hanno avuta. L’orgoglio, ha osservato qualcuno, può scivolare facilmente nell’odio, soprattutto se c’è una guerra in corso, e l’odio per “chi ha scatenato la guerra” diventa giustificazione della violenza. È un circolo vizioso di disumanizzazione indotto dalla guerra, come c’era da aspettarsi. Il problema, ricorda un giornalista russo, Aleksandr Baunov, non è più “chi ha la colpa”, ma “come faremo poi a guardarci negli occhi?”. 

E continua Baunov, rivolgendosi a russi e ucraini: “la nazione non è una fede. Non è giusta o sbagliata, può essere solo la nostra o quella degli altri. Ma non è detto che la nostra sia necessariamente quella vera, né quella buona”. Se ancora una volta, ciascuno tenta di tracciare la linea di separazione tra buoni e cattivi, i fatti tornano a confermare le parole di Solzenicyn: la linea che separa il bene dal male taglia a metà il cuore di ogni uomo.

Giudicare per categorie inconciliabili ci fa perdere la capacità di vedere il reale nella sua complessità; padre Aleksej Uminskij, di Mosca, ha ricordato che in tutti i conflitti avviene sempre la disumanizzazione del nemico, il cui volto è sostituito da una maschera: ora del fascista, ora del terrorista. E quando non si vede più l’uomo reale, si può tranquillamente odiare; gioire dell’odio, magari in nome della patria, della fede, del Vangelo, perché noi stiamo dalla parte giusta. 

Ma quest’odio fa solo del male, soprattutto a chi lo nutre. L’unica risposta possibile è restaurare il volto umano, strappare le maschere e le etichette e vedere nel proprio nemico un uomo a cui non vogliamo bene. E questo non ci può lasciare tranquilli: “non mi piace non amare”, ha aggiunto padre Aleksej. E similmente papa Francesco ha ricordato agli europarlamentari che se non si afferma la centralità della persona umana, “si è in balia delle mode e dei poteri del momento”. Il contributo che il cristianesimo può dare proprio oggi all’Europa è l’umanesimo incentrato sulla dignità della persona. 

È un passo comune in Europa, in Russia, in Ucraina, aver capito che qualsiasi schieramento diventa falso quando il grande ideale, che sia la patria, la Chiesa o la tradizione, oscura i volti umani.

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