Due scultori e la nostra fragilità

Due scultori, due modi diversi di ritrarre l'umano. PIGI COLOGNESI spiega l'approccio artistico di Igor Mitoraj, morto recentemente, e di Alberto Giacometti

Il 6 ottobre è morto lo scultore Igor Mitoraj. Due giorni dopo si è aperta alla Galleria d’Arte Moderna di Milano un’importante mostra dedicata ad un altro scultore: Alberto Giacometti. E così per qualche giorno abbiamo avuto sotto gli occhi le immagini delle loro opere. 

Sono molto differenti e non so se qualche critico abbia azzardato dei parallelismi, ma guardandole – e consiglio il lettore di aprirsi anche solo le rispettive pagine di Google Immagini – mi è parso che qualcosa le accomuni.

Giacometti è nato in Svizzera nel 1901, ha operato a lungo a Parigi ed è morto nel 1966. Nella fase più matura e conosciuta della sua produzione ci ha regalato quegli inquietanti corpi filiformi, smangiati, quasi sul punto di scomparire, di venir consumati dallo spazio che li circonda. Giulio Carlo Argan li descriveva come «espressione in immagine della condizione esistenziale dell’uomo moderno, alla soglia tra l’Essere e il Nulla [citazione di Sartre, che amava Giacometti]».

Mitoraj è successivo di un paio di generazioni, essendo nato nel 1944 da madre polacca ai lavori forzati in un lager nazista. Anche lui ha fatto tappa a Parigi e poi – dopo aver a lungo viaggiato tra USA e Grecia – si è stabilito in Italia, a Pietrasanta, vicino al candido marmo utilizzato, assieme al bronzo, per le sue statue. Che si ispirano evidentemente al supremo modello d’ogni scultura: i greci nella loro sublime perfezione, armonia, equilibrio. Soltanto che i volti e i corpi scolpiti o fusi da Mitoraj sono feriti, spaccati, hanno gli occhi fasciati o mancano di un pezzo. Sembrano contemporaneamente dei relitti fortunosamente scampati ad un terremoto e dei tentativi cui è venuta meno della materia per raggiungere la desiderata perfezione.

Giacometti pone il problema della nostra precarietà, del nostro continuo trovarci così esili da poter essere travolti da un filo di vento, così vulnerabili da perdere via via consistenza. E non sta parlando di una condizione psicologica, di uno stato d’animo, ma proprio della nostra situazione ontologica.

Mitoraj mostra la fragilità umana più come frutto di una storia. Alle sue figure è successo qualcosa: sono state rotte, sfregiate, spezzate; oppure qualcosa non è ancora successo: sono mancanti, incomplete.

Eppure gli esili personaggi di Giacometti (si guardi la forza dinamica di L’uomo che cammina) hanno anche una indiscutibile potenza di presenza; pur essendo sull’orlo della dissoluzione non vi sprofondano; resistono, ci sono. Analogamente gli eroi greci di Mitoraj hanno certamente subito sconfitte nella loro ricerca della perfezione, ma non hanno perduto la loro bellezza. Anzi, la loro è una bellezza in qualche modo più completa in quanto esplicitamente consapevole di ciò che la contraddice. Basta guardare l’Icaro caduto sullo sfondo del tempio di Agrigento.

Giacometti e Mitoraj; due grandi scultori il perenne lotta contro le sirene del nichilismo.

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