Il tradimento dell’attesa

Le festività imminenti producono uno strano effetto di catalizzatore di stress. Un affanno che è segno di attesa. L'importante è rallentare il passo, per accorgersi del nuovo. PIGI COLOGNESI

Le festività che si preannunciano per fine mese — e dico genericamente «festività» non perché voglia essere politicamente corretto ed evitare ogni riferimento al Natale cristiano (come da più parti scioccamente preteso), ma perché il fenomeno di cui intendo parlare riguarda indistintamente chi si prepara alla nascita di Gesù come chi pensa solo alla settimana bianca o al cenone di capodanno —; le festività, dunque, producono uno strano effetto di catalizzatore di stress. Gli impegni si accumulano improvvisamente e si sovrappongono: arriva l’invito ad una cena tra amici e si scopre che non si hanno più sere libere perché già altri inviti sono stati ricevuti o fatti; si deve organizzare una meeting di lavoro e si fatica a trovare uno spazio in agenda perché pare che tutti abbiano fissato riunioni urgenti proprio prima di Natale; si ha bisogno che un idraulico o un elettricista venga a casa per una riparazione e ci si sente immancabilmente rispondere che prima delle feste non se ne parla nemmeno. Poi ci sono i preparativi di ciò che dovrebbe solennizzare e rendere gaie le giornate imminenti: la scelta di come fare pranzi e cene e i relativi acquisti suscitano discussioni agguerrite e dubbi amletici; la sana voglia di far contento qualcuno col proprio regalo risveglia nervosismo per le ristrettezze economiche mentre la stanca accettazione dei regali che si devono fare per convenienza insinua il sospetto che si stia dimenticando qualcuno che poi si offenderà. I complicati preparativi per un’eventuale partenza fuori città si aggiungono a tutte queste preoccupazioni e le appesantiscono. La nostra mente diventa come le strade di Milano in queste sere: sovraccariche di macchine che non si sa da che parte sbuchino, ingorgate ad ogni semaforo, rumorose per l’impazienza di chi suona per niente o sgomma per guadagnare una posizione in coda. E si ha sempre l’impressione di essere comunque in ritardo.

È evidente, tuttavia, che tutto questo affanno è segno di una più o meno consapevole attesa, di una ricerca e addirittura di una insopprimibile vitalità; del resto persino a livello economico le festività imminenti sono un periodo da cui ci si aspetta un salutare scossone della stagnazione, un segnale della tanto sospirata ripresa.

Può certo restare, in sottofondo, il sospetto — o magari addirittura la certezza, motivata da quanto accaduto negli anni precedenti — che tutta questa agitazione non sortirà nulla di realmente buono, che in fondo siamo come quelli di cui parla il profeta Isaia: «Abbiamo concepito, sentito le doglie, ma abbiamo partorito vento».  

Ciò nonostante continuiamo a prepararci, a darci da fare, ad organizzarci. E a sentirci inesorabilmente in ritardo. Ci viene in aiuto, allora, il folgorante pensiero improvviso di Andrej Sinjavskij: «Quando si è in ritardo, è bene rallentare il passo». Perché? Perché quello che in fondo aspettiamo non potremo mai produrlo col nostro affannarci ed invece, forse, potremo accorgercene diradando l’ingorgo dei pensieri, sollevando lo sguardo dalle ansiose programmazioni, facendo spazio in mezzo alle preoccupazioni. E se ci capiterà di scorgerlo, allora sì che sarà festa.

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