“Capriccio” antieuropeo, perché?

Tra poco più di un mese ci saranno le elezioni europee ed è chiaro che si tratterà di un vero e proprio referendum sull’Ue. Il commento di FERNANDO DE HARO

Tra poco più di un mese ci saranno le elezioni europee ed è chiaro che si tratterà di un vero e proprio referendum sull’Ue. In Spagna, tuttavia, è difficile vedere le cose in questo modo, dato che il voto viene considerato in chiave prettamente interna. Molto probabilmente il bipartitismo che ha dominato la vita politica negli ultimi decenni salterà in aria. Sembra arrivato il momento dell’astensionismo, per fare capire chiaramente che “i politici sono tutti uguali”. Oppure di votare i comunisti, l’estrema sinistra o chiunque non abbia a che fare con il Pp e il Psoe. Persino tra l’elettorato più fedele ci saranno diserzioni, per dimostrare la propria stanchezza in un voto che, in fondo, viene considerato senza alcuna posta importante in palio.

In Italia è più evidente la minaccia del populismo, questa marea cresciuta in modo raccapricciante. Il Fronte nazionale francese, dopo il risultato alle municipali, spera di dimostrare la sua forza e potrebbe essere vicino a diventare il primo partito. In Olanda il Partito per la libertà di Wilders potrebbe essere il più votato. In Austria la maggior parte dei sondaggi danno il Fpo (Partito della libertà) a circa il 20%: il suo obiettivo è superare uno dei partiti attualmente al potere. Il partito dei Veri finlandesi è quasi al 18%, terza forza del Paese. Gli euroscettici dell’Ukip (Partito per l’indipendenza del Regno Unito) e di Alternativa per la Germania sono diventati più forti. Molto probabilmente nel nuovo Parlamento europeo le forze che non credono nell’Ue supereranno i socialdemocratici, i liberali e i popolari. Le sensibilità che hanno costruito l’Europa dei 28 negli ultimi decenni saranno una minoranza.

Questo “capriccio” antieuropeo è solo un effetto momentaneo delle dure politiche anti-crisi o c’è qualcosa di più serio? I liberali sono convinti che appena tornerà la crescita le acque si calmeranno. Tuttavia c’è qualcosa di più. L’incapacità di sviluppare una politica economica comune ha generato malessere. La mancanza di una risposta efficace, i freni che hanno impedito alla Bce di intervenire (nonostante la bassa inflazione), i ritardi nell’Unione bancaria e un lungo elenco di eccetera hanno creato scetticismo. Bruxelles e Strasburgo sono percepite, sempre più, come le capitali di una burocrazia distante e impotente.

Non ha tutti i torti chi pensa che l’incapacità di fare vera politica abbia portato l’Europa a “occuparsi” dello sviluppo di nuovi diritti soggettivi da laboratorio. Diritti che si fabbricano contro l’esperienza della vita e i problemi reali degli europei. La cittadinanza europea, definita come tale nel Trattato di Maastricht (1992), ha portato ad alcuni benefici evidenti, come la libertà di circolazione; molti, però, li considerano insufficienti. Diciamoci la verità: la memoria del dopoguerra, l’impulso dei padri fondatori (Schuman, Monnet, De Gasperi) sono svaniti. Così come il ricordo della rifondazione europea dopo la caduta del Muro di Berlino, nonostante siano trascorsi poco più di 20 anni.

Nonostante tutto questo l’Europa ha ancora senso? Senza dubbio, anche se è necessario un cambiamento. La crisi ucraina lo ha reso evidente: il nazionalismo continua a essere l’ideologia minacciosa che riappare quando le altre spariscono. La globalizzazione rende più necessaria che mai la lotta per un sistema di welfare che, debitamente riformato, possa ancora distinguerci. La pace e la prosperità sono due ragioni sufficienti per votare sì (scegliendo i popolari o i socialdemocratici) nel referendum del 25 maggio.

Dinnanzi all’avanzamento del modello asiatico e all’onnipresenza di quello statunitense, è evidente che il nostro è un mondo che concepisce diversamente il lavoro, il riposo e la vita comune. Ci conviene difenderlo e svilupparlo.

Il cambiamento comincia con la con la consapevolezza della necessità. Non possiamo concepirci solamente come titolari di alcuni diritti che si moltiplicano all’infinito, dimenticandoci che il protagonista della storia è chi si assume responsabilità e costruisce. E da qui può partire una rivoluzione: meno politica fiction, più politica reale; meno burocrati, più persone; più sussidiarietà e più solidarietà.

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