Non siamo tutti Genny ‘a carogna

La distanza tra chi fa informazione e la realtà spesso finisce con il creare mostri. E' il caso di Genny la carogna, l'ultras del Napoli oggi al centro della scena. Ne parla GIUSEPPE FRANGI

La distanza tra chi fa informazione e la realtà spesso finisce con il creare mostri e fantasmi. È quello a cui abbiamo assistito in questi giorni, per i fatti accaduti a Roma, prima della finale di Coppa Italia. Un episodio grave provocato da un manipolo di teste calde e di mezzi delinquenti, ha finito con il trascinare in una spirale di demonizzazione migliaia di tifosi. È stata emblematica la giornata di martedì. Per tutto il giorno su siti e radio è continuata a rimbalzare la “notizia” che quella sera, in occasione della partita di campionato con il Cagliari, tutti i tifosi della curva napoletana si sarebbero presentati con la famigerata maglietta con la scritta “Speziale libero”. Si vociferava di laboratori che stavano sfornando le migliaia di capi e via con altre fantasie mediatiche di questo tipo. Naturalmente la sera in curva allo stadio San Paolo non si è visto nulla del genere; i due che si sono presentati con la maglietta sono stati fermati e si sono presi un bel Daspo che gli impedirà (chissà…) di entrare allo stadio per un po’. Sugli spalti c’era solo un civilissimo striscione, dal contenuto molto umano: «Ciro tieni duro», in riferimento all’ultras napoletano ridotto in fin di vita da un proiettile. 

Come si poteva pensare che migliaia di tifosi aderissero supinamente a una proposta così stupida e offensiva? E che logica è quella che proietta l’immagine di un prepotente come Genny a’ carogna, su migliaia di altri, quasi ne fossero tutti dei cloni? E come si fa trasformare quello che è un chiaro fenomeno di psicologia collettiva (l’attesa di notizie su un tifoso gravemente ferito) in una demonizzazione sociale senza appello di quella stessa folla? 

La nostra informazione sempre pronta a prendere le difese di alcune minoranze eticamente elette, ha qualche problema invece davanti a queste altre minoranze “plebee” e culturalmente spregevoli. Intendiamoci, il problema delle curve negli stadi, quello di un tifo che si organizza per affiliazione fuori controllo, esiste. Ma il fenomeno va visto anche dall’altra parte: in che termini il rito dello stadio è una valvola di sfogo, un’esperienza di compensazione che evita forme di aggregazioni molto più a rischio di sfociare in violenza? E poi, che ne sarebbe del calcio e degli stadi senza il calore anche se un po’ rozzo del tifo, senza la fantasia delle coreografie? Sarebbe un mortorio, un surrogato triste della playstation.

Il calcio è un grande fenomeno sociale nella vita del nostro paese. È stato valutato che ogni domenica si giocano in Italia 16mila partite, a livello professionistico o amatoriale. Stiamo quindi parlando di uno stabilizzatore sociale di un’importanza enorme che va sempre visto nella sua complessità e non solo per qualche inevitabile deriva patologica. Certo, queste patologie vanno affrontate. Ma la ghigliottina mediatica è il peggior modo di affrontarle.

Due anni fa, di fronte ad un’analoga situazione, Mario Monti, allora presidente del Consiglio aveva proposto di “chiudere” il calcio per due anni. «Significa non sapere come funziona la società. È un linguaggio elitario di persone abituate a frequentare le élite», ha detto Sergio Manghi, grande tifoso e docente di sociologia a Pavia in un’intervista di Lorenzo Alvaro sul sito Vita.it. E ha aggiunto: «Se un mio studente venisse da me dopo aver voluto approfondire una proposta del genere lo boccerei subito». Totalmente d’accordo.

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