L’inchino dello scandalo

SALVATORE ABBRUZZESE commenta l'inchino che ha scandalizzato nuovamente l'Italia. Quello della Madonna portata in processione a Ballarò, a Palermo. Cosa c'è dietro a questo gesto? 

L’idea che la Madre di Dio possa inchinarsi ad un comune mortale è semplicemente ridicola: il termine è scelto decisamente male. Proporrei di riservare il termine “inchino” alle avventure crocieristiche per radiarlo dalla cronaca delle processioni. La processione è il segno pubblico e solenne di una relazione affettiva che raccoglie una collettività di credenti che, proprio grazie a questa, formano una comunità. Essa costituisce un riconoscimento dei luoghi di vita quotidiana, un passaggio nel mondo ordinario, realizzato con l’intenzione di benedire, ma anche di fare memoria di una relazione che invece è spesso invisibile, confinata com’è nella vite private e nei dialoghi silenziosi di ciascuno. Una relazione che, nel momento della processione, torna ad essere proclamata in modo ufficiale, imponendosi su qualsiasi banalità e qualsiasi umana piccineria. È quindi un’ammonizione ed un richiamo: per questo la madonna non si inchina, ma guarda: e siamo noi ad inchinarci, pentendoci.
Tuttavia un tale processo non ha nulla di automatico. Come tutte le forme espressive che transitano per la coscienza di chi le pratica, si può partecipare ad una processione per motivi del tutto diversi: da un incontro con persone amiche al semplice recupero dei tempi della propria adolescenza, dai preliminari di un accordo commerciale al furto dei portafogli. Il senso della processione fa allora fatica a farsi strada, ad imporsi sulle motivazioni estemporanee.
Tra queste ce ne sono alcune che, intenzionalmente, non sanno né vogliono cedere il passo alla dimensione religiosa, in quanto perseguono coscientemente un altro obiettivo. Si tratta – come nei casi di Ballarò e di Oppido Mamertina – di un uso strumentale del rito in funzione di legittimazione e di auto-assoluzione. Questa sorta di “benedizione-fai-da-te” si realizza in mille modi possibili: dalla conquista di una visibilità nelle processioni, al gesto devozionale ostentato pubblicamente, al trasporto della statua, fino ad arrivare alla partecipazione in prima fila alla struttura organizzativa. In questo genere di legittimazione, da secoli, potenti e aspiranti tali si cimentano con impegno e attenzione. Lesti e pronti nel farsi vedere là dove vogliono essere visti e soprattutto rapidi a disporsi nell’atteggiamento e nel comportamento con il quale vogliono essere incorniciati. Una tale strumentalizzazione non è sempre facile da intercettare, in quanto non risiede nel gesto in sé, ma solo nelle intenzioni con le quali viene compiuto.

Nel caso della criminalità organizzata che aspira e diventa une vero e proprio potere territoriale si tratta di mostrare, a sé stessi ed ai propri sodali, di non essere solo un’organizzazione, ma anche una cultura, dotata di valori e principi. Per questa cultura, il sacro trasmesso per tradizione e praticato per affezione è una preda semplice ed utile. Semplice perché non c’è niente di più banale del far fermare una processione. Le processioni si fermano normalmente, specialmente quando l’edicola con la statua è portata a braccia: è un gesto antico e nobile al quale è logico ed umano consentire. Utile perché quello stesso gesto, che nelle sue intenzioni autentiche significa preghiera e invocazione di perdono, nel vocabolario del potere significa invece tutt’altro: visibilità, presenza, prossimità a chi conta e a chi decide.
Pensare di poter usare la statua della Vergine per ottenere un riconoscimento sociale, quindi mondano, della propria persona o della propria famiglia non è un semplice peccato, ma rappresenta una completa distorsione del messaggio di salvezza. Si scambia la richiesta di perdono per un’assoluzione garantita ed una legittimazione assicurata. Una simile deriva religiosa indica esattamente una mutilazione dei gesti e dei significati: rappresenta una tradizione svuotata dei contenuti e ereditata solo nelle forme. È la perdita senza ritorno della coscienza del peccato e della propria miseria, è la scomparsa delle radici a vantaggio degli involucri. È il sacro che si usa per essere assolti e non per essere giudicati.
Proprio per questo Papa Francesco parla di scomunica. Si scomunica un uso strumentale del sacro; si scomunica un abuso della relazione tra Dio e l’uomo; si scomunica un declassamento della Chiesa ridotta a semplice agenzia di amministrazione dei beni religiosi, dimenticandosi che questa non è solo una “madre” che accoglie, ma anche una “maestra” che indica cosa si deve fare. Affermare la madre per negare la maestra vuol dire annichilire la Chiesa per costruirsi una religione ad uso proprio. Un’eresia da scomunicare, appunto.

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