Il divieto di ridere

Ha suscitato scalpore la frase del vice primo ministro turco: le donne non devono ridere in pubblico. FEDERICO PICHETTO spiega qual è la differenza tra diritto ed esperienza

Non c’è niente di più delicato e difficile per un uomo di oggi che parlare delle donne. L’accusa di maschilismo da un lato, o di “metrosexual” dall’altro inibiscono gran parte dei concetti e delle parole che maschi pensanti possono legittimamente avere sul mondo femminile. Ci tengo a questa premessa perché quello che sta accadendo in questi giorni in Turchia ha certamente dell’assurdo, ma è perfettamente comprensibile all’interno di una certa logica e di una certa cultura. 

Bülent Arinç, vicepremier e portavoce del governo turco, ha infatti qualche giorno fa affermato pubblicamente che “una donna sa cosa è morale e cosa è immorale. Per questo non riderà in pubblico, non assumerà atteggiamenti ammalianti e proteggerà la sua castità”. Il tono perentorio, la pretesa di estendere un costume religioso rigoroso all’intera opinione pubblica e l’infelice formulazione sintattica della frase hanno attirato addosso al politico le proteste delle donne liberal della Turchia e – di conseguenza – la solidarietà delle illustri colleghe degli altri paesi del Mediterraneo. Si è arrivati ad associare questa indicazione morale non solo all’invito rivolto dal premier Erdogan a ciascuna donna a “fare almeno quattro figli”, ma anche alla battaglia di numerose ultraconservatrici che hanno a gran voce chiesto di poter entrare in classe, o in parlamento, col capo velato secondo i rigidi dettami della legge islamica. 

In poche parole quello che l’Occidente difende a spada tratta è l’autodeterminazione del singolo: vuoi ridere? Ridi! Vuoi sposarti e non fare figli? Fallo! Vuoi mettere il velo in classe? Mettilo. Ecco, adesso voi capite con che stato d’animo vorrei provare a dire due parole su tutto questo: con la certezza che qualcuno, non so stavolta chi, mi scomunicherà o come misogino o come relativista. Però se nessuno parla rischiamo di andare avanti a “bere” qualunque cosa politicamente corretta ci passi sotto mano senza provare a capire, a entrare “nel merito” delle vicende e della vita. 

Per questo la prima cosa che mi interessa è una questione grammaticale: maschio, femmina, ma anche omosessuale, eterosessuale, corrotto o divorziato possono essere parole da usare come sostantivi, ma – di fatto – nascono come apposizioni o aggettivi. Secondo me noi parliamo di tutte queste cose perché non siamo più capaci di parlare “dell’uomo”. E allora lo riduciamo, lo ritagliamo, facendolo diventare un essere facilmente gestibile e definibile. Insomma, perdonatemi la battuta, siamo tutti “omofobi”, nel senso che abbiamo tutti paura di parlare dell’uomo. E così parliamo dei generi, delle circostanze, delle decisioni e smettiamo di parlare di “diritti umani” per parlare di “diritti di alcuni uomini definiti da una certa circostanza”. 

Con le donne non è tanto diverso: quando pensiamo a loro, nella vulgata comune, le pensiamo staccate da quello che sono – persone – e iniziamo a farci dettare il giudizio sulle grandi questioni che le riguardano non dalla loro realtà, ma dalle riduzioni e dalle discriminazioni che hanno subito. In questo senso, se le donne sono persone e non panda, è evidente che non si autodeterminano, ma che la loro identità si costruisce – nel tempo – attraverso delle relazioni. 

Una donna non è più felice perché qualcuno le permette di ridere, ma perché nella sua storia ha un motivo per ridere. Una donna non è più libera perché può scegliere di non avere figli, ma perché scopre che la fecondità si realizza solo in un cammino di responsabilità. Il problema, insomma, non è l’autodeterminazione, ma l’esperienza che una donna fa, che una persona fa. 

È il nostro uno stato laico? È il nostro uno stato dove tutte le esperienze possono esprimersi ed entrare in dialogo tra loro considerando lo spazio pubblico il luogo della ricerca comune del bene e non di una verità imposta dal potere? Questa è una domanda scomoda. Per la Turchia, ma forse anche per l’Italia. Per l’islam, ma forse anche per il cristianesimo. Nessuno è esente dal tentativo moralistico, che ci attrae, di semplificare il mondo slegandolo dal suo rapporto con la realtà e con l’esperienza. Essere liberi non è postare un sorriso su twitter quando ti impediscono di sorridere, né comprare la pillola per evitarsi scomode responsabilità nei confronti di quello che faccio e di quello che amo. 

Essere liberi significa ricominciare a comprendere che “io dipendo”: dipendo da quello che sono, dipendo dal fisico che ho, dipendo da quello che mi è successo. E tutto questo non è un male, è la proposta che un Altro mi fa per il mio bene. L’uomo libero è l’uomo che si è riconciliato con quello che è, è l’uomo che non ha bisogno di cambiare né di cambiarsi, ma che ha la coscienza che tutto quello che trova dentro di sé, perfino le attrattive più impronunciabili, sono cartelli stradali di un sentiero che – se percorso fino all’ultimo miglio – lo porteranno ad essere davvero umano. Senza bisogno di twitter, ma – soprattutto – senza bisogno di chiedere a chi detiene il potere il diritto di esistere. Viva le donne, viva le persone, viva tutti coloro che hanno il coraggio di vivere non la vita che vogliono, ma quella che – magari inaspettatamente – possono! 

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