Cos’è (davvero) essenziale?

L'esperienza alla quale ci chiama la Chiesa è l'esperienza della ricerca del centro, dell'essenziale. Ma per questo, occorre essere coscienti che siamo periferia. ANDREA MORO

Mi hanno detto: “Per la gita, portati l’essenziale”. Non ho avuto molti dubbi, ho scartato maglioni e scarpe, libri e accessori e ho tenuto da mettere nello zaino solo quello che mi sarebbe davvero servito. Non è difficile riconoscere ciò che serve se ti fidi di chi ha già fatto questa esperienza. Nessuno ama fare fatiche inutili. Ma son sempre un linguista e son rimasto colpito dalla parola: essenziale. L’essenza, ciò che “sta sotto” tutte le mie proprietà casuali, la mia “sostanza” (tralascio per pudore le disquisizioni etimologiche sul verbo “essere” del quale sono appassionato da fin troppi anni). 


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Possibile che la mia essenza coincida con un ricambio di biancheria, una felpa, un impermeabile, sapone, dentifricio, spazzolino e un libro? Ma quando mi hanno detto “portati l’essenziale” non ho replicato con una lezione di linguistica, ho capito subito cosa dovevo fare. L’essenziale sottintende il riconoscimento e l’adesione a uno scopo. E se questa fosse l’ultima settimana della mia vita, cosa sceglierei di essenziale? Il fatto è che quel particolare apparentemente irrilevante della gita – il fidarsi di qualcuno – diventerebbe una faccenda molto, molto più delicata. Chi ha già fatto l’esperienza della fine della vita? Non credo di avere molte scelte e non ho vergogna a dire che seguirei qualcuno che ha seguito qualcuno che ha seguito Gesù: una catena di fiducia. 


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A quel punto, se ci fidiamo davvero, non è difficile sapere cosa dobbiamo portare con noi. La soddisfazione di viaggiare leggeri è impagabile, libera lo spazio fisico e mentale per i desideri veri, non ti fa sentire al servizio di qualcosa che ingombra. Allora il mio essenziale emerge facilmente, come ciò che mi permette di trovare corrispondenza tra ciò che desidero e spero e le circostanze nelle quali mi è dato di vivere. La realizzazione del progetto che sento mio e che non mi sono dato da solo: fondamentalmente, ciò che mi permette di amare a lavorare serenamente.

L’immagine del viaggio e dello zaino che devo portare con me si è inaspettatamente rivelata pertinente in un’altra parola al quale questo Meeting ci sta richiamando con grande intensità: periferia. È vero che oggi con periferia intendiamo sostanzialmente indicare una lontananza da un centro, sia questo geografico, sociale e culturale o cronologico, ma etimologicamente la parola indica l’atto di portare in giro, dove la preposizione perì (intorno) si applica alla radice di fero (portare) in greco antico. Perché “portare in giro” ha assunto il significato che gli diamo oggi quando diciamo “periferico”? Molte possono essere le chiavi di lettura; certamente una è che portare in giro qualcosa implica l’adattamento di quel qualcosa a condizioni nuove rispetto a quelle originarie e dunque, visto che ci sono tante periferie ma sempre un unico centro, una variazione rispetto a un canone di riferimento che per questo diventa appunto il centro. L’importante di ciò che si porta in giro è che di quel qualcosa sia riconoscibile l’essenziale. La periferia, dunque, diventa la condizione privilegiata di richiamo verso l’essenziale.


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È un legame inaspettato quello tra l’essenziale e la periferia ma non è nulla rispetto alla ricaduta che questo legame ha – o può avere − nella vita quotidiana, se lo prendiamo sul serio. La condizione estrema di sapere che abbiamo ancora una sola settimana di vita è, per nostra fortuna, molto rara. Come possiamo dunque facilitare il riconoscimento dell’essenziale per noi? Qual è la condizione nella quale possiamo essere spinti a fidarci di Gesù e liberarci di zavorre inutili nella vita? L’esperienza alla quale ci chiama la Chiesa, da sempre, è l’esperienza della ricerca del centro, dell’essenziale, tramite il riconoscimento della nostra perifericità. Noi siamo delle periferie e riconoscerci tali ci porta a puntare all’essenziale: è questo il motivo per il quale un “povero in spirito” si sente beato; perché, libero dalle zavorre, vede l’essenziale. Dobbiamo cercarla tutti, la periferia, e se non la sentiamo occorre andarle incontro, anche fisicamente, proprio dove vediamo che manca qualcosa. Se ci sentiamo al centro, se ci mettiamo al centro, siamo già morti.


MEETING 2012/ Il saluto di don Julián Carrón agli organizzatori e ai partecipanti

@andreamoro_

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